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 2019  dicembre 02 Lunedì calendario

Biografia di Stanley Matthews

«Hey Stan, how are you? Ce la fai a farmi ancora un altro paio di stagioni?».
Fine prima parte. Intervallo. Gabriel Hanot è un francese in gamba, studi a Berlino, tre lingue, gioca a calcio e prima della Grande Guerra si guadagna 12 convocazioni in Nazionale, alcune da capitano. Al termine del conflitto diventa addirittura ct della Francia ma ha la passione per il giornalismo e i due incarichi assieme si incastrano male. La palla al balzo arriva dopo una vergognosa sconfitta della Francia contro la Spagna nel ’49. Lavora all’Equipe e scrive un pezzo velenosissimo contro la nazionale a cui ne fa seguire un altro, non firmato, in cui chiede le dimissioni del ct, cioè sue, quindi si presenta in federazione e conclude che i critici hanno ragione, non ci sa fare e se ne va. Mica male. Ora è solo un giornalista e un bel giorno è fulminato da una idea geniale, istituire un premio per il miglior calciatore europeo. Non più solo coppe e targhe per i club ma per chi ha emozionato di più e ha aggiunto qualcosa, anche se non ha vinto niente. È lo spirito che lo anima e coinvolge tre colleghi di France Football, si chiamano tutti Jacques, sono Ferran, Godet e de Ryswick. È il 1956, nasce il Pallone d’Oro, 31 centimetri di altezza, 23 di diametro, 12 chili di peso, è di ottone riempito di cemento, poi bagnato nell’oro, si solleva con due mani e diventa subito il riconoscimento più ambito per ogni calciatore.
Seconda parte. Il tipo che chiama Stan al telefono è Joe Smith, nuovo manager del Blackpool, vuole una squadra come si deve e il primo nome in lista è Stanley Matthews. È il 1947, Stan ha appena compiuto 32 anni, ce la fai? Terzo di quattro figli, padre barbiere e pugile che tenta fino all’ultimo di fargli praticare la noble art, ma mamma Elizabeth non vuole vedere altri nasi ammaccati girare per casa. I suoi agiografi hanno calcolato che Matthews ha trascorso il settantacinque per cento della vita con un pallone fra i piedi. Dribblandolo. A 11 anni è centromediano alla Wellington School di Hanley, a 50 compiuti è li a saltellare sulla fascia con la maglia dello Stoke City. Nel frattempo è stato aviere nella Royal Air Force, ha sposato Betty figlia di Jimmy Vallance suo allenatore allo Stoke, è diventato baronetto, vegetariano, beve solo tè, non fuma, dorme dodici ore e non ha mai saltato una lunga corsa sulla battigia alle 7 del mattino: «Adoro l’aria salmastra, mi rigenera e mi toglie gli anni». Ala destra vecchio stampo, tecnica, velocità, senso del dribbling con un repertorio di finte e controfinte infinito, dirige il gioco e costringe la palla a passare da lui. Ogni partita e ogni sua frase diventano leggende, lui è The wizard of the dribble, il mago. In Inghilterra la sua longevità è stata sempre accettata come un fatto divino e alcune circostanze hanno del soprannaturale. Stanley Harding Mortensen, che gioca con lui nel Blackpool e in Nazionale, diceva che doveva a Matthews la maggioranza delle sue reti di testa. Tutti pensavano che fosse per la precisione dei cross: «No, non è questo, a parte la precisione, quella non si discute. Ma lui calcia il pallone in modo che quando ti arriva la cucitura è dall’altra parte, così non ti ferisci la fronte». Niente è impossibile per Stan e arriva il grande giorno, la finale di FA Cup del 2 maggio 1953 contro il Bolton. In centomila a Wembley, in tribuna la regina Elisabetta, il principe di Edinburgo e Wiston Churchill. Stan ha 38 anni ed è reduce da una gravissimo infortunio che lo ha tenuto fuori fino a marzo. Blackpool sotto per 2-1, Bolton ridotto in dieci per l’infortunio occorso a Eric Bell che finisce all’ala, non sono ammesse sostituzioni. Ma è proprio Bell che di testa segna il 3-1, accidenti, 30 minuti scarsi e va in onda The Matthews half an hour, la mezz’ora di Stan. Sugli spalti c’è un mucchio di gente che salta e urla il suo nome, inizia a lavorare di caviglie, dribbla l’intera difesa, serve Mortensen e si va sul 3-2, passano i minuti sul grande orologio di Wembley, lui è imprendibile, lo atterrano, punizione di Mortensen 3-3 all’88’. Il Bolton vacilla. Pochi secondi al termine, dribbla tutto quanto c’è in giro, scodella in mezzo e Bill Perry segna il più comodo dei 4-3. Il Blackpool rimane nella storia del calcio inglese e Stan ha onorato la memoria del padre che in punto di morte ha voluto una promessa: «Gioca a calcio se vuoi, ma vinci una FA Cup». Fatto.
Terza parte. Il 18 dicembre del 1956, sul numero 561 di France Football, viene pubblicato il nome del vincitore del primo Pallone d’Oro assegnato da una giuria di 16 giornalisti di Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Germania Ovest, Inghilterra, Italia, Jugoslavia, Olanda, Portogallo, Scozia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria. Ognuno ha segnalato cinque giocatori, in ordine, cinque punti al primo. Stanley Matthews è il primo re con 47 punti. Non contrasta, non ha il colpo di testa, non c’è un solo tifoso che possa giurare di averlo visto calciare di sinistro, molti sono convinti che il suo premio sia alla carriera, ormai al termine. Gioca ancora altri nove anni con lo Stoke City e la regina, preoccupata per la sua salute e nel timore che gli succeda qualcosa, mette due guardie del corpo alle sue costole. Quando a cinquant’anni compiuti dà l’annuncio del suo addio al calcio, invita al ristorante un dozzina di giornalisti: «Forse è una decisione prematura, ma ho deciso di smettere».
Fin dai primi calci a Stoke-on-Trent ha dovuto fare i conti con l’invidia dei compagni che lo tacciano di divismo, non è vero ma è abbastanza intelligente da capire che deve fare qualcosa, si mette sulla fascia e sforna assist in continuazione per mandarli in gol. Ma non gli passano la palla, gli allenatori capiscono e schierano attorno a lui ragazzi che non lo osteggino. Ma ora è tutto finito, fuori da un contesto che non ha mai gradito, inizia a giocare un altro calcio. Con la Football Association non si è mai preso, tratta male giocatori e tifosi, è arrogante, snobba le competizioni che non riesce a controllare, una brigata in giacca, la definisce. Proprio lui che quando a 14 anni infila per la prima volta la maglia della nazionale dirà che il cuore gli si è fermato e ha avuto paura di morire. A 41 anni affronta il Brasile e manda in corto circuito Djalma Santos dopo 90 minuti terribili in cui la leggenda verdeoro non riesce a capire cosa gli stia succedendo. Il mondiale dell’Inghilterra è umiliante, i dirigenti rientrano, lui rimane per studiare le squadre e i giocatori sudamericani avanti nella tecnica e nell’equipaggiamento. Inizia a girare, allena formazioni di dilettanti, Stati Uniti, Canada, a Soweto sfida le leggi dell’apartheid e allestisce una squadra di soli giocatori di colore la Stan’s Men. Durante una tournée si prende una storta per Mila, la traduttrice al seguito della squadra, e si convince di aver trovato l’amore della vita. Divorzia, chiude definitivamente con il resto del mondo e va a vivere con lei a Malta, lontano da luci e chiacchiere. Quando Mila scompare, Sir Stan ne ha 85 e perde i suoi poteri, racconta un amico che lo va a trovare, e dopo pochi mesi decide di raggiungerla. Ha giocato in due squadre di retroguardia, Stoke City e Blackpool e ha vinto solo l’FA Cup del ’53, mai ammonito, lei è un gentiluomo gli dice Wiston Churchill mentre gli stringe la mano a Wembley. Nel centro di Hanley una statua lo immortala con una palla ai piedi mentre con lo sguardo cerca un compagno a cui consegnarla per depositarla in porta. E la sua gente non ha mai smesso di sperare: Hey Stan, how are you? Ce la fai a farci ancora un altro paio di stagioni?