il Giornale, 2 dicembre 2019
Intervista a Gilles Kepel
Nel 1974, appena finito il liceo, Gilles Kepel si imbarcò su una nave che da Venezia lo avrebbe portato a Istanbul, nel Levante siriano e in Egitto. Era il suo primo vero viaggio, e in quelle settimane nacque una passione per l’Oriente che non l’ha più abbandonato. Oggi Kepel è il più famoso islamista di Francia, il che, vista la tradizionale autorevolezza dei francese in questo campo, vuole dire del mondo.
Oltralpe non è conosciuto solo nel ristretto giro dei professori, ma è una figura pubblica, protagonista del dibattito giornalistico e televisivo. Consigliere del presidente della repubblica François Hollande, in ottimi rapporti con l’attuale inquilino dell’Eliseo Macron, ha fatto parte della commissione che ha contribuito alla legge che vieta il velo e altri simboli religiosi nelle scuole pubbliche. A lui si deve tra l’altro la creazione del termine jihadista, ottenuto unendo un termine arabo a un suffisso di derivazione greca e latina.
I suoi avversari abituali sono quelli che chiama «islamo-gauchistes», gli intellettuali di sinistra che per i loro tic culturali faticano a comprendere la minaccia rappresentata dall’estremismo integralista, con le sue ramificazioni nelle periferie delle grandi città francesi e tra gli immigrati di seconda e terza generazione. Anche tra i simpatizzanti della destra di Marine Le Pen, però, Kepel non ha molti amici, soprattutto per la sua attenzione nel distinguere tra l’islam dei semplici fedeli e quello degli estremisti radicalizzati. Figlio di un intellettuale di origine ceca, traduttore di Vaclav Havel, è spesso in Italia (insegna all’università della Svizzera italiana) e parla un italiano sorprendente. «C’è una spiegazione», racconta. «Mia madre è di Mentone. In casa si è sempre parlato un dialetto basso-ligure. Potrei dire che è la mia vera lingua materna». Nel 2016 l’Isis l’ha condannato a morte. La liberazione di Raqqa e la recente uccisione di Al Baghdadi sono state, nei fatti, una liberazione anche per lui.
Professore, com’è entrato nel mirino dell’Isis?
«È una storia complicata. Si parte da una mia visita a una prigione nel distretto Seine Saint Denis, che ha dato il maggior numero di combattenti francesi per l’autoproclamato stato islamico. Sono andato per un dibattito con i prigionieri, visto che lì sono detenuti un buon numero di seguaci dell’islam più radicale. Le mie osservazioni non sono piaciute a uno di loro, un reclutatore che ha mandato in Siria almeno una decina di combattenti per lo Stato islamico. Poi un jihadista, nato in Francia, Larossi Abballa si chiamava, ha ucciso un poliziotto e la moglie in una cittadina vicino a Parigi. Un agguato terribile, pensi che la donna è stata uccisa di fronte al figlio di tre anni. Prima di essere ucciso il terrorista, in una diretta via internet, ha fatto i nomi di alcuni nemici dell’islam che andavano uccisi. C’ero anch’io. Abballa era lo scagnozzo di questo franco-algerino, seguace dell’Isis, che si era trasferito a Raqqa. Per farla breve: mi sono trovato sotto scorta 24 ore su 24. Fortunatamente ora è tutto finito».
Grazie alla caduta dello Stato islamico?
«Tutti quelli che avevano chiesto la mia morte sono stati ammazzati. E così sono uscito dal programma di protezione. Di tutto il periodo è rimasto il mio ultimo libro, Uscire dal caos. Lo considero una specie di testamento scritto in punto di morte. Perché sullo spirito le minacce non hanno pesato più di tanto. Ma il mio corpo ha somatizzato in maniera imprevedibile: sono rimasto quasi un anno a letto con una sciatica che riuscivo a vincere solo a colpi di cortisone. Non potendo andare in giro, stavo a letto e scrivevo. La cosa interessante è che appena il pericolo è finito il mal di schiena è scomparso».
Proprio nel libro lei ricorda la prima diffusione globale del terrorismo islamico: alla fine degli anni Ottanta i guerriglieri che avevano combattuto in Afghanistan sono tornati a casa. Adesso ci sono i foreign fighter che si erano uniti all’Isis, che stanno facendo ritorno ai Paesi di origine.
«Sì le analogie ci sono, e anche le prigioni non risolvono del tutto il problema. La prigione è una specie di scuola di specializzazione, di università del terrorismo islamico. Solo in Francia abbiamo cinquecento detenuti che sono iscrivibili all’area dell’estremismo. Rispetto a un tempo però la situazione è diversa».
Cioè?
«Allora c’era Bin Laden. Quando fu ucciso era già politicamente morto, ma la forza del suo carisma era rimasta intatta. Bin Laden era l’uomo che aveva creato una nuova narrativa universale, che con l’11 settembre aveva segnato la fine del vecchio mondo, scardinato dal jihadismo. Per l’estremismo islamico le Torri gemelle sono paragonabili alla vittoria sull’impero sassanide in Persia nel settimo secolo. E l’islam in espansione aveva dovuto aspettare il 1453, con la caduta di Bisanzio, per ottenere una vittoria paragonabile. Da questo punto di vista la figura di Al Baghdadi è completamente diversa».
Che cosa intende?
«Al Baghdadi non piaceva nemmeno a chi lo seguiva. È uno sconfitto e la sua sconfitta sul campo ha gettato lo smarrimento nel mondo del radicalismo, anche se non possiamo trascurare i nuclei di fanatici in giro per il mondo, dai campi profughi del Medio Oriente fino alle periferie francesi. Dal punto di vista operativo l’Isis ha fallito, sia militarmente che politicamente. Restano aree di mobilitazione sui social network ma la capacità di coinvolgere vaste aree di popolazione è tramontata, le speranze messianiche sono state tradite. L’islamismo politico oggi sta affrontando una delle prove più serie degli ultimi decenni. Da questo punto di vista è rimasta nel mondo islamico una sola figura con dei caratteri da vincente».
A chi si riferisce?
«A Erdogan. È lui in questo momento la figura politicamente dominante del mondo islamico. Tra l’altro sul ruolo giocato dai turchi nella morte di Al Baghdadi ho un’ipotesi precisa. Non è frutto di colloqui con fonti riservate ma semplicemente di un ragionamento. Il capo dell’Isis è stato ucciso a Barisha, pochissimi chilometri dal confine turco, dove i servizi segreti di Ankara fanno il bello e il cattivo tempo. Il sospetto più naturale è che la sua cattura sia stata offerta a Trump dalla Turchia in ringraziamento all’atteggiamento tenuto con i curdi».
Per noi italiani però il punto di crisi più grave è in Libia. Abbiamo le milizie islamiche a poche centinaia di chilometri dalle coste. Nel suo libro lei scrive che, in maniera paradossale, le logiche tribali e quelle della razzia modello predoni del deserto hanno prevalso sull’estremismo islamico.
«Uno degli aspetti più interessanti della questione libica è il riformarsi delle strade tradizionali dello schiavismo, il ritorno a un atavismo culturale islamico. I migranti di oggi come gli schiavi dell’Africa nera, un tempo oggetto di traffico da parte dei mercanti arabi. In Libia l’intervento di Francia e Gran Bretagna ha avuto il grave limite di non prevedere una prospettiva politica per il dopo Gheddafi. Il Paese si è riformato su linee tribali e l’Europa si è divisa tra l’appoggio al governo di Tripoli e al generale Haftar. Anche Italia e Francia si sono divise seguendo, volendo dire così, le linee della rivalità commerciale tra Eni e Total. Se vogliamo uscirne, però, noi europei dobbiamo trovare un terreno comune. L’Europa deve dare una risposta forte, coinvolgendo anche la Germania. Da soli o in ordine sparso non ne usciamo. Soprattutto se teniamo contro che con Trump l’America ha perso il ruolo di punto di riferimento ideologico per diventare una presenza tra il predatorio e il commerciale, simile per certi versi a quella cinese».
In Libia, tra l’altro, solo poche settimane fa hanno fatto la loro comparsa i contractor militari russi della società Wagner, inviati da Putin.
«È lui il grande vincitore delle ultime vicende in Medio Oriente. Un vincitore che però ha anche un grande limite, quello di non sapere andare al di là di una serie di operazioni tattiche. A questo punto, tuttavia, se vogliono assicurare la riconciliazione e un futuro alla Siria, gli europei devono mettersi d’accordo con il leader del Cremlino. Anche approfittando di un’altra circostanza: i russi non hanno le risorse per affrontare da soli la ricostruzione del Paese. Dal punto di vista simbolico comunque proprio la Siria è stata il palcoscenico del grande ritorno russo. Nelle scorse settimane abbiamo ricordato tutti il 1989 europeo, con la caduta del Muro di Berlino. Ma di ’89 ce n’è stato un altro: il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan. Ora sono tornati, in Siria hanno ottenuto la maggiore vittoria al di fuori dei confini della ex Unione Sovietica: hanno cementato i rapporti con Erdogan, hanno un rapporto strettissimo con Israele, dove il 20% della popolazione è di origine russa».
Lei ha sintetizzato l’evoluzione del mondo arabo nell’ultimo mezzo secolo con una formula sintetica: Corano e barile.
«Sono i due simboli dei fenomeni, il boom della rendita derivante dagli idrocarburi e l’imporsi dell’islamismo politico, che hanno segnato i 50 anni più recenti. Sul medio e lungo termine, però, le cose sembrano destinate a cambiare. Dal punto di vista economico basta pensare alle energie alternative e a fenomeni come la conversione dei trasporti all’elettrico che diminuiscono la richiesta di idrocarburi. Lo sfruttamento del gas e del petrolio di scisto provenienti dall’America aumentano invece l’offerta. Il risultato lo possiamo vedere in un Paese come l’Arabia Saudita: il principe Mohammed Bin Salman, l’uomo forte, sta cercando di cambiare l’economia, riducendo la dipendenza da petrolio. E allo stesso tempo sta cercando di modernizzare i costumi riducendo il potere delle autorità religiose e mettendo in secondo piano un’interpretazione letterale e rigorista del Corano. Certo, nel mondo arabo il presupposto per cambiare il rapporto tra società e Stato è una riforma culturale del rapporto con il dogma religioso. Un passo importante in questo senso è l’edizione del Corano che è stata appena pubblicata in Francia».
Di che cosa si tratta?
È il cosiddetto Coran des historien, il Corano degli storici, un tentativo di superare la lettura cristallizzata nel tempo del libro sacro dell’islam, la stessa lettura che è stata usata come arma per promuovere la regressione culturale ed etica di cui il jihadismo è espressione. In questo caso trenta studiosi hanno analizzato il Corano restituendolo al suo contesto storico, geografico e religioso».
Resta il fatto che tutte le primavere arabe degli ultimi anni non hanno dato i frutti sperati. Con l’eccezione della Tunisia l’abbattimento dei vecchi regimi si è tradotto in caos o in un rafforzamento dell’estremismo islamista.
«È vero, tutte le proteste organizzate negli ultimi anni hanno mostrato una grande difficoltà a uscire dal paradigma coranico personificato dai predicatori salafiti, se si parla di Paesi sunniti, o dai pasdaran nel caso dei musulmani sciiti. Le rivoluzioni iniziate declamando valori occidentali si sono dimostrate superficiali e hanno dovuto fare i conti con un humus più profondo, ancorato a un vecchio islam. In fin dei conti è quello che è successo in Iran nel 1979: una rivoluzione in cui si parlava di diritti umani, marxismo e di valori liberali è stata presa in ostaggio dal clero sciita. Le telecamere montate sui terrazzi dei palazzi di piazza Tahrir mostravano centomila persone che protestavano, potremmo dire, “all’europea”. Quello che non si vedeva era un Paese islamico di 80 milioni di persone che nel frattempo sono diventati quasi 100. Detto questo mi sembra che qualche cosa stia cambiando. Lo vedo in Algeria, da 40 settimane le proteste si ripetono, c’è grande attenzione nell’evitare la violenza, gli slogan e l’atteggiamento mi sembrano più profondi e maturi. Un segno di speranza, appunto».