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 2019  dicembre 01 Domenica calendario

Lo studio di Jean-Luc Godard

Miuccia Prada (dopo una corte, si dice, durata cinque anni) ha convinto il regista a traslocare – traslocare, non ricostruire – la sua tana-laboratorio da Rolle, nel cantone di Vaud dove vive in Svizzera, alla sede della Fondazione milanese. L’idea è stata quella di imballare tutto quello che il padre della Nouvelle Vague aveva nel suo studio e portarlo in largo Isarco: naturalmente schermi (cinque) e casse acustiche (sei), ma anche l’attaccapanni con il cappotto appeso, tappeti, mobili e mobiletti, manifesti, una sdraio, e poi libri, tanti libri...

Nemmeno la Varda, nella struggente scena con cui chiudeva il suo cine-pellegrinaggio in Visages Villages, riusciva a oltrepassare la porta della casa di Jean-Luc Godard, da sempre molto geloso della sua intimità. Per questo è una doppia sorpresa scoprire che proprio lui ha accettato la corte di Miuccia Prada (si dice durata cinque anni) per portare in due locali della Fondazione milanese la sua tana-laboratorio. Non ricostruita, ma letteralmente traslocata da Rolle, dove risiede nel cantone svizzero di Vaud, fino a largo Isarco 2. E in via definitiva: una «installazione permanente» che il regista ha voluto chiamare Le Studio d’Orphée («Lo studio di Orfeo») e che entra a far parte del patrimonio della Fondazione, aperta al pubblico da mercoledì 4 dicembre (info: fondazioneprada.org).
L’idea, sorprendente perché totalmente originale, è stata quella di imballare tutto quello che Godard aveva nel suo studio per trasferirlo a Milano. E non solo video (ci sono cinque schermi) e casse acustiche (sei) ma anche l’attaccapanni con appeso il suo cappotto, i guanti di lana e il cappello ancora impregnato del profumo del suo immancabile sigaro, il tavolo su cui lavora (e dove fa bella mostra di sé la silhouette di un gatto molto Chris Marker) insieme ai tappeti che ricoprono completamente il pavimento. E poi i piccoli mobili dove appoggia i libri che portano i segni evidenti di lunghe consultazioni: romanzi (Céline, Féerie pour une autre fois; Peter Weiss, L’Esthétique de la résistance, solo il primo volume però) ma anche libri di storia (Pierre Péan, Vies et morts de Jean Moulin; Michelle Zancarini-Fournel, Les Luttes et les rêves. Une histoire populaire de la France) con un posto d’onore (?) in bellissima mostra a terra sui tappeti per il romanzo apocalittico di Charles-Ferdinand Ramuz Les Signes parmi nous.
Non possono naturalmente mancare i libri di cinema dove spiccano La grande parade dello storico del muto Kevin Brownlow e Le Musée immaginaire di Henri Langlois (il fondatore della Cinémathèque française) accanto a quelli che ha scritto lui, come i quattro volumi Gallimard delle Histoire(s) du cinéma, o la compagna di vita Anne Marie Miéville (Images en parole). Senza dimenticare uno spazio per l’arte, con il diario di Eugène Delacroix e un volume dedicato a Nicolas De Staël. Né potevano mancare le fotografie sui muri, incorniciate (come lo Stroheim di La grande illusione di Renoir o un giovane Kafka) oppure incollate (un cartoncino nero raccoglie i ritratti di Dostoevskij, Molière, Pirandello, Cervantes, Virginia Woolf e Goethe; lì vicino una mega fotografia di Hannah Arendt), né i manifesti cinematografici, con L’avventura di Antonioni e Jour de Fête di Tati. Oltre a un quadro che si richiama a Rembrandt e al suo celebre Susanna e i vecchioni e al ciak usato in For Ever Mozart per Le Bolero fatal, il film nel film che doveva girare l’immaginario regista Vicky Vitalis.

Anche se le cose più curiose sono, di fianco alla scrivania, una scatola da scarpe trasformata da Anne Marie Miéville in un micro-cinema con tanto di spettatori seduti di fronte a uno schermo disegnato che viene illuminato da una lampadina; o ancora, appoggiato su un giradischi, il 45 giri di Lotta Continua con La ballata di Pinelli e La ballata della Fiat (dove si legge: «Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina») e all’ingresso, a mo’ di benvenuto, accanto alle scope e agli spazzoloni per pulire, ecco una sdraio dove il regista ha abbandonato la sua racchetta da tennis, una (sola) scarpa, i pantaloncini insieme a qualche camicia usata e (probabilmente) ancora bagnata di sudore.
Sbaglierebbe però chi pensasse che tutto questo risponda solo all’ennesima provocazione godardiana, attento a costruire un’immagine di sé sempre sorprendente e fuori dalle regole. È piuttosto lo studiato scenario in cui si può ritrovare, se non proprio rispecchiare, la molteplicità e a volte la contraddittorietà di un lavoro che in più di mezzo secolo ha costruito «una specie di foresta magica in cui ci si perde a piacere» per usare una felice intuizione di Jean-Michel Frodon. Dove si può rischiare di smarrirsi (i suoi ultimi film hanno suscitato spesso ironie fuori luogo) ma dove ritrovare la via può essere meno difficile di quello che si pensa. Affidandosi magari ai video che lo stesso Godard ha selezionato e che, insieme al suo ultimo film Le Livre d’image, saranno visibili per il pubblico della Fondazione sullo schermo più grande dello studio (vedi box qui sopra).
Padre riconosciuto della Nouvelle Vague (il suo fondativo Fino all’ultimo respiro uscì nello stesso anno de I 400 colpi di Truffaut, il 1959) ma anche inflessibile fustigatore di chi sembrava tradire la purezza delle idee originali (le sue polemiche con Truffaut hanno segnato la storia del cinema francese), Godard è stato il più intransigente dei propri critici, pronto a mettere in discussione i film che faceva («Ho fatto bene delle parti, ma raramente dei film interi» non esitava a dichiarare), e insieme il più esigente dei teorici, sempre alla ricerca di un’idea di cinema ogni volta più alta.
Ripercorrendo la sua filmografia (più di cento titoli, di tutti i formati e lunghezze possibili), si può notare che quasi subito, diciamo a partire da La cinese (1967, otto anni dopo il suo esordio), Godard ha iniziato a mettere in discussione la forma tradizionale del cinema, quella di tipo narrativo classico. I suoi film, a cominciare da Week end, una donna e un uomo da sabato a domenica per proseguire con La gaia scienza, One plus One, Vento dell’Est o Lotte in Italia, cercano di confrontarsi con quello che succede fuori dai cinema, nelle strade e nelle piazze. Non vogliono raccontare una storia ma interagire con la Storia, nei modi che allora sembravano più efficaci, quelli della militanza politica e dell’annullamento dell’individuo nella massa (gli anni del Gruppo Dziga Vertov).

Godard non impiega molto a capire che quella via è senza uscita e torna sui suoi passi, che però non sono più quelli del cinema tradizionale. I suoi film continuano a interrogare la società e la politica: Crepa padrone, tutto va bene, Numéro deux («il mio secondo primo film», dove getta le basi della sua nuova ricerca), Comment ça va, Si salvi chi può (la vita) e poi ancora Passion, Prénom Carmen, Cura la tua destra sono tutti titoli che portano Godard sempre più lontano dalle forme tradizionali della comunicazione cinematografica.
«Solo filmando si scoprono le cose da filmare» potrebbe sembrare una delle sue solite battute, che stordiscono e chiudono ogni discussione, ma è proprio a partire da questa «pratica» che Godard arriva a mettere a punto l’idea di un film come «forma che pensa», come saggio per immagini, dove il montaggio prende sempre più un ruolo decisivo e «teorico». La svolta si può identificare con la realizzazione delle sue quattro Histoire(s) du cinéma, tra il 1988 e il 1995. Inizia qui, all’inizio degli anni Novanta, il periodo più ambizioso (e discusso) del cineasta Godard. Film come Allemagne année 90 neuf zéro, JLG/JLG – Autoritratto a dicembre, For Ever Mozart, Film Socialisme, Adieu au langage fino al recentissimo Le Livre d’image (presentato al Festival di Cannes del 2018) sono altrettanti capitoli di un percorso che spinge il cinema a riflettere come la filosofia e a pensare con la politica. Lungo un percorso che avvicina un regista ottantanovenne (li compirà il 3 dicembre) alle pratiche dei millennial di collezionare foto e scene da Instagram o YouTube, ma con un ben più personale scavo nelle qualità estetiche delle immagini stesse (che nei suoi film decolora, slabbra e spossessa della loro nitidezza o chiarezza), Godard rivendica il diritto a usare la storia del cinema, della pittura e della letteratura come un immenso giacimento dove scavare e cercare, un «livre d’image» capace di offrire gli strumenti migliori per interpretare il reale attraverso i film e l’arte.