La Lettura, 1 dicembre 2019
Hobsbawm e io. La nostra storia era d’amore
Si tratta di un vecchio adagio che suona ormai un po’ stantio, quello secondo cui dietro ogni grande uomo c’è una grande donna: ma forse può essere il caso di rispolverarlo per raccontare la vita di Eric Hobsbawm, l’eminente storico britannico scomparso nel 2012 a 95 anni. Perché la figura fondamentale al suo fianco, quella che lo ha sorretto nel corso degli anni, è stata Marlene, la donna che aveva sposato nel 1962 in seconde nozze e che è stata la vera àncora della sua esistenza.
Adesso Marlene, ottantasettenne, ha deciso di raccontare il suo lato di quella straordinaria avventura umana e intellettuale che vide Hobsbawm diventare una celebrity degli studi storici, in patria come all’estero. E lo ha fatto in un volume di memorie appena pubblicato a Londra, Meet me in Buenos Aires («Incontriamoci a Buenos Aires»), nel quale traccia un ritratto intimo e inedito dell’autore del Secolo breve, attingendo ai propri ricordi così come ai propri diari e a quelli dei figli.
Lo spunto immediato per la stesura di questo volume è stata l’uscita, a inizio anno, della biografia di Hobsbawm, A Life in History, opera del suo allievo Richard Evans («la Lettura» #382 lo ha intervistato il 24 marzo di quest’anno). Marlene, pur apprezzando la ricostruzione storico-politica di Evans, è rimasta un po’ meno contenta del ritratto umano che ne è venuto fuori: «La ragione per scrivere il mio libro di memorie – ci spiega Marlene sul divano della sua casa di Belsize Park, dove s’è trasferita dopo la morte di Eric, appartamento carico di immagini, libri e ricordi del marito scomparso – era fare un supplemento alla sua biografia. Sono state scritte molte cose esagerate sulla sua vita privata, specie sessuale: grazie al cielo quella prima di me!».
Due personalità molto diverse, quelle dei coniugi Hobsbawm, anche se con origini simili: entrambi provenienti da famiglie ebraiche in fuga dalla minaccia nazista in Europa. «Eravamo tutti e due degli outsider qui in Inghilterra – racconta Marlene – ma eravamo fatti l’uno per l’altra. Lui aveva avuto un crollo nervoso quando la prima moglie lo aveva lasciato: e impiegò 10 anni a riprendersi. Non voleva vedere psichiatri, voleva farcela da solo: e scrisse tantissimo in quei 10 anni, la sua terapia fu la scrittura. Quell’uomo si era ritrovato molto solo e lui non era capace di stare da solo, amava la gente. Quando ci incontrammo scattò subito una chimica particolare. Uomini e donne amano in modo differente: io lo amavo quando faceva cose stupide, come dimenticare la sua cartella sull’aereo con tutti gli appunti per una conferenza... Il nostro è stato un matrimonio molto riuscito, un’attrazione di opposti: lui non voleva sposare una ragazza intellettuale, una professoressa. Tante ragazze all’università gli andavano dietro, ma erano più che altro interessate al loro dottorato: e lui non voleva questo. Le Phd girls, le chiamavo».
Un aspetto singolare delle memorie di Marlene è rappresentato dalla continua sorveglianza cui gli Hobsbawm erano sottoposti da parte dei servizi segreti britannici, a causa delle idee marxiste di Eric: «Tutti quelli che facevano parte del Partito comunista – spiega Marlene – erano schedati. Il nostro telefono era sotto controllo, ma non me ne importava: mi dispiaceva per quelli che dovevano ascoltarci, perché le conversazioni vertevano per lo più su bambini e pannolini. Lui non era un attivista, era un intellettuale: i soldi che hanno sprecato... Nel 2105 ho aperto il suo file e ho scoperto che ci hanno sorvegliati anche durante la luna di miele...».
Una parte importante del libro è occupata dai ricordi italiani. Marlene era venuta nel nostro Paese appena ventitreenne, negli anni Cinquanta, per lavorare alla Fao: aveva vissuto la Dolce vita, era rimasta affascinata da quello stile, aveva imparato a vestirsi dalle sue elegantissime amiche italiane, era stata perfino corteggiata da Kirk Douglas. E il nostro Paese era stato importante pure per suo marito, «anche se Eric e io – racconta – venivamo da una differente esperienza dell’Italia. Io arrivavo da Manchester, per me fu una cosa incredibile vedere tutti quei colori a Capri, non avevo mai visto il blu del mare, non sapevo che esistesse: ero una ragazza che voleva diventare adulta. Eric invece è andato in Italia quando stava già scrivendo sui contadini: era profondamente interessato all’Italia e alla sua storia rurale. Eric era affascinato dai contadini, che andava in giro a intervistare: gradualmente il suo lavoro si è poi allargato al brigantaggio e quindi si è interessato anche alla mafia, molto prima di chiunque altro».
Esperienze altamente formative, per il giovane Hobsbawm. «L’Italia e il Sudamerica erano i suoi punti di riferimento, a causa della passione per i contadini e per la gente che li aiutava: personaggi come Robin Hood, Pancho Villa e simili». Ma altrettanto centrali erano i rapporti con gli intellettuali italiani, primo fra tutti lo storico Rosario Villari: tra gli Hobsbawm e i Villari era nata una solida amicizia, cementata dai periodi passati assieme in Inghilterra e in Toscana (a questa intervista è presente Anna Rosa, la vedova di Rosario, splendida signora ottantenne pronta a soccorrere la memoria di Marlene quando ce n’è bisogno).
«L’Italia ha influenzato tanto mio marito – continua Marlene – tutti lì volevano che scrivesse per loro. E lui era soprattutto attratto dall’eurocomunismo: Eric aveva provato a cambiare in questo senso il Partito comunista in Gran Bretagna, ma era diventato impopolare per questo motivo. Non era piaciuto, lui restava un outsider. E il Pc britannico rimaneva tutto sommato stalinista». Altra amicizia importante fu quella con Giorgio Napolitano. «Sì, ci erano molto vicini. Siamo anche andati a cena al Quirinale. E Clio – ricorda Marlene – era molto amica nostra: una volta ci ha regalato delle bellissime sciarpe che ho sempre tenuto con me».
Gli Hobsbawm hanno sempre portato l’Italia nel cuore. Marlene, quando è immersa nei ricordi, ancora oggi lascia che qualche frase in italiano vada a intercalare i discorsi in inglese. «E In Italia io ed Eric finivamo per parlare in italiano fra di noi: e i nostri figli si seccavano con noi per questo. Anche se la nostra Julia si chiama così da via Giulia: amo quella strada, una delle più belle di Roma. Quando eravamo a Milano andavamo alla Scala, di noi si prendeva cura Anna Drugman della Rizzoli, una persona meravigliosa: faceva in modo che ad ogni passo fossimo trattati da vip».
Ma quelli erano anche gli anni del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e i discorsi con gli amici italiani cadevano inevitabilmente sulla cronaca politica. «Eravamo molto scontenti dell’ascesa di Berlusconi: un uomo orribile, parlavamo della sua volgarità e delle sue ragazze. Un po’ come oggi Boris Johnson con le sue bionde». Un tema che ci porta ai nostri giorni: «È una rivoluzione di destra, quella che sta avvenendo adesso. Ed Eric non sarebbe stato sorpreso da Donald Trump. Lui già allora si chiedeva: perché l’America è considerata la terra delle opportunità, quando tanti vivono nei caravan, i loro figli non vanno all’università, c’è tanta gente dimenticata? Così come qui da noi non sarebbe stato sorpreso dalla Brexit».