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 2019  dicembre 01 Domenica calendario

Le crisi in America Latina, una per una

L’America Latina è come uno stadio: accade qualcosa e si scatena il tifo. Proteste in Cile? Gol della sinistra! Rivolta in Ecuador? Raddoppio! Ma ecco cadere il presidente ex sindacalista Evo Morales in Bolivia: la destra accorcia le distanze. Fine del primo tempo. Nella ripresa, la sinistra punta su Argentina e Messico, conta di strappare Colombia e Perù. Ma la destra non dispera: ha dalla sua il Brasile! E non demorde altrove: Venezuela e Cuba sono claudicanti.
Che ci sia rabbia e insoddisfazione è fuor di dubbio; che gli uni emulino gli altri, ancora meno: i social network accorciano la miccia della protesta; ed è senz’altro vero che le piazze stracolme hanno almeno un punto in comune: la «crisi della mediazione politica», lo scollamento tra elettori ed eletti. Altrimenti perché «la piazza» e non le urne? Ma che ciò giustifichi un’unica ed epica narrazione – la crociata contro il «neoliberismo», la solita e sempre imminente «caduta del capitalismo» – non sta in cielo né in terra; ancora meno che «destra» e «sinistra» siano i semafori giusti per capirci qualcosa. I tifosi fanno di tutta l’erba un fascio, ma più che tifare è meglio ragionare, distinguere, valutare.
I Paesi del PacificoLe fiamme più alte si sono alzate in Cile, dove ancora ardono; s’erano già levate in Ecuador contro l’aumento della benzina, poi si sono diffuse a Perù e Colombia: sul Pacifico, insomma, c’è gran subbuglio. A prima vista è sorprendente: qui l’economia è cresciuta assai più che altrove; Ecuador a parte, dove Lenín Moreno non sa come tappare la voragine fiscale ereditata da Rafael Correa e nessuno vuole pagarne il costo, gli altri Paesi hanno i conti in ordine; tutti, inoltre, hanno alle spalle anni di mobilità sociale ascendente e riduzione della povertà. Dunque? Di che cosa si lamentano? 
Domanda sciocca. Forse l’Italia al culmine del boom economico raggiunse la pace sociale? O viceversa entrò in anni di violente turbolenze? Nei Paesi del Pacifico si sommano diverse proteste: mutatis mutandis, anch’esse evocano il nostro passato. Da un lato, c’è la protesta pacifica di ceti medi sempre più numerosi ed esigenti: guerre e dittature sono ormai alle spalle; ciò che preme loro è accedere a migliori servizi e salari, distribuire in modo più equo la torta che è cresciuta: non tollerano più le barriere castali delle rigide società corporative di matrice ispanica. Vogliono più democrazia, in breve, e un capitalismo più «sociale», l’unico che i Paesi latini e cattolici tollerano. 
Dall’altro lato ci sono i gruppi radicali, perlopiù studenteschi, che recitano in modo nuovo il vecchio copione: vogliono distruggere il «capitalismo» con la forza. Non servirà a nulla osservare che, se nei loro Paesi è oggi possibile distribuire meglio la ricchezza, è perché hanno economie di mercato capaci di produrla; né che i Paesi latinoamericani che il capitalismo l’hanno abbattuto sono quelli che peggio stanno: la fede non sente ragioni e ogni generazione deve reinventare la ruota. Pazienza. Ma si capisce che la «sinistra» tifi per loro: combattono governi «neoliberisti», qualsiasi cosa ciò significhi.

Va da sé che i confini tra le due proteste siano ovunque labili e il loro esito dipenda da vari fattori: se governi e classi politiche sapranno dare risposte adeguate e rapide, un argine potrà contenere la marea; riforme fiscali più distributive e spese sociali più efficaci e mirate sono la priorità. Se invece si spaccheranno o cavalcheranno la tigre, la fusione delle due proteste diventerà un cocktail esplosivo, aprendo la porta all’avvento del tipico redentore latinoamericano: a quel punto si salvi chi può; insieme all’acqua sporca, addio anche al bambino. Previsioni? Il Cile, per prosperità economica e solidità istituzionale, è il più attrezzato a contenere l’urto. Gli altri sono a serio rischio.
I bolivarianiLe fiamme sul Pacifico non sono riuscite a occultare quelle divampate in Bolivia, anche se sono servite a far calare un velo sul tramonto della democrazia e sulle violente repressioni in Venezuela e Nicaragua. Di Cuba inutile parlare: gli abusi sono pane quotidiano, ma passano in cavalleria. Sono proteste che la «sinistra» disprezza e la «destra» celebra. Si capisce: non combattono certo il «neoliberismo»! Anzi: sono sollevazioni contro regimi, quelli bolivariani, che il «neoliberismo» si vantano di averlo sradicato. Buffo, perché in realtà è vero a metà: Venezuela e Cuba, che hanno «ucciso» il demoniaco «capitalismo», nuotano nella miseria; Bolivia e Nicaragua, che con il «capitalismo» hanno flirtato per interesse, si sono mantenute a galla, benché i loro conti mostrino da tempo la corda. Ma il problema che li accomuna, che ne mobilita le piazze e tanta violenza e morti ha causato, è un altro: è la democrazia, il rispetto del suffragio popolare, della divisione dei poteri, delle libertà individuali. 
Se, dunque, le proteste nei Paesi del Pacifico sono conflitti nella democrazia, quelli nei Paesi bolivariani sono conflitti sullademocrazia: non riguardano la sua qualità, ma la sua stessa natura. Perciò sono assai più dirompenti e duraturi.
Come si spiega? La storia ci viene in soccorso: i regimi «bolivariani» sorgono da un ceppo ideologico estraneo e ostile alla democrazia liberale; hanno matrice «religiosa»: interpretano la vittoria elettorale come un mandato divino, come l’esodo dalla schiavitù alla terra promessa. Perciò occupano lo Stato come fosse loro, usano il denaro pubblico come patrimonio privato, i tribunali come spada redentrice, la scuola e i media come strumenti di catechesi «rivoluzionaria». Il loro «popolo», secondo Evo Morales o Nicolás Maduro, è il «popolo eletto», depositario di una «cultura» che il liberalismo, nella sua ansia di «omogeneizzare» il mondo, minaccia di distruggere. 
È un bel problema: che democrazia può sorgere dove la politica è una crociata contro l’eretico? Che rilevanza possono mai avere lo Stato di diritto e le istituzioni rappresentative, figlie degeneri delle menti dei filosofi illuministi? L’ansia di perpetuarsi al potere come re cattolici non è frutto di ego impazziti, ma di un’ideologia in cui il «popolo di Dio» non intende piegarsi al «popolo della Costituzione». La democrazia? Solo finché vincono «i giusti»: qui non entrerà mai la famosa divisione dei poteri del famoso Montesquieu, diceva Fidel Castro; da ciò gli sfacciati brogli elettorali di Evo Morales. Sono moderne teocrazie, regimi confessionali. Se Nicolás Maduro scalda il cuore, non c’è da stupirsi: anche il fascismo italiano ebbe la sua «sinistra»; il falangismo spagnolo pure.
I panlatini di ritornoPoi ci sono Messico e Argentina. Alle fiamme sono abituati, ma non se la passano per niente bene: il primo è in preda alla stagnazione economica, la seconda arretra. Nessun raggio di sole buca il loro orizzonte, nulla fa pensare che si caveranno presto dal pantano. Eppure fanno mirabili annunci e professano Grandi Trasformazioni. Una domanda sorge spontanea: possono il nazionalismo messicano e il peronismo argentino risolvere ciò che hanno prodotto nella loro lunga storia? Può la causa essere anche rimedio? Autoritarismo e paternalismo, demagogia e clientelismo, patrimonialismo e inefficienza: giurano di essere cambiati, ma il pedigree è quello che è. 
Appena eletto, l’argentino Alberto Fernández è corso a Città del Messico ad abbracciare Andrés Manuel López Obrador; costruiranno la Patria Grande, l’unità latinoamericana. Chi, più di un peronista, erede del sogno di unità panlatina del vecchio generale argentino, e di un nazionalista messicano, allievo della Grande Rivoluzione scoppiata nel 1910, ha titolo per riuscire laddove tutti hanno fallito? Il «Gruppo di Puebla», il «nuovo fronte progressista latinoamericano», sarà il loro ombrello: la «sinistra» tifa per loro. Vogliono «sradicare la fame» e «garantire educazione e salute», promuovere «inclusione sociale» e creare «lavoro dignitoso». Meraviglioso. Dimenticano però di spiegare come, con che mezzi, mediante quali risorse.

Il «Gruppo di Puebla» riscalda così una vecchia minestra. S’illude: quello che fallì in passato fallirà ancora per la stessa ragione; perché pretende di fondare l’unità latina sull’ideologia e non sugli interessi, sull’idea romantica di pueblo e non sull’idea democratica di «cittadinanza», su un’«essenza» morale e non su una «forma» istituzionale. La chiama «integrazione», ma vuole una «fusione»; l’integrazione è un patto tra diversi, la fusione è un fascio di uguali, una comunità di fede. Per unire l’America Latina, pensa, tutti devono diventare «progressisti», tutti i governi di uno stesso colore. Perciò fallirono Perón, Castro, Chávez: la pluralità cacciata dalla porta rientrerà dalla finestra; e continueranno a combattersi due idee incompatibili di America Latina; a ogni successo «progressista» ne seguirà uno «conservatore»: è logico e fisiologico. 
Fascista senza fascismoSul piatto della bilancia opposto a quello dei «progressisti» s’erge infatti il Brasile di Jair Bolsonaro: nientemeno! Per lui tifa la «destra» ed è peggio che andare di notte. Invoca la croce e agita la spada, vuole libertà economica, ma guai a parlargli di diritti civili: il Dio degli evangelici reazionari scaccerà quello dei cattolici rivoluzionari, pensa. È quel che sognò un tempo il dittatore cileno Augusto Pinochet: tecnocrazia senza democrazia, moralismo bigotto e libertà controllata; quel che in fondo sognano i conservatori colombiani fedeli all’ex presidente Álvaro Uribe. Ecco così i crocifissi di «destra» branditi ovunque contro i crocifissi di «sinistra», la guerra di religione rimpiazzare ancora una volta la dialettica politica. Per fortuna la «destra» fascista non può oggi fondare un regime fascista; proprio come la «sinistra» clericale non può fondare un regime cristiano. Magra consolazione.
Laboratorio di cosa?Impavida dinanzi a tanto caos, s’alza dagli spalti l’ode alla «piazza» latinoamericana, al «laboratorio» latinoamericano, alla «primavera» latinoamericana; l’ode alla furia redentiva contro la pazienza costruttiva, all’ansia escatologica contro la prosaica edificazione di istituzioni. Un’altra volta! Ebbene: non è il futuro che avanza, ma il passato che ritorna; è la solita e antica storia di «destre» tecnocratiche e «sinistre» papaline, «sinistre» sovraniste e «destre» nazionali; una storia alla perenne ricerca del Regno di Dio in terra, del paradiso di «destra» e dell’Eden di «sinistra», fucina di infiniti fanatismi e pochi riformismi, di veementi proteste e scarse proposte, di voli pindarici e tremendi schianti al suolo.
È un passato vischioso che imprigiona. La «sinistra» vuole più Stato, ma poi lo usa come carota per i fedeli e randello per gli infedeli; denuncia la disuguaglianza, ma più che estirpare la povertà punisce la ricchezza. La «destra» oscilla tra l’astratto liberalismo dei suoi intellettuali e la propensione a vivere di rendita dei suoi imprenditori; coltiva abiti aristocratici fuori dal tempo e professa un moralismo ipocrita e ammuffito. Tutti invocano la «democrazia», ma la tollerano a stento: quella rappresentativa che tutti conosciamo sta loro stretta; la vorrebbero invece «organica» o «partecipativa», «nazionale» o «popolare»; di solito funziona male o non funziona affatto. Quando si diraderà il fumo della cronaca e faremo i conti con l’arrosto della storia, è probabile che scopriremo quel che già sapevamo: che, ognuna a suo modo, «destra» e «sinistra» latinoamericane combattono lo stesso nemico; il nemico eterno della cristianità ispanica: il razionalismo illuminista, la cultura liberale. Di questo conflitto, da sempre, l’America Latina è laboratorio.