il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2019
Intervista a Riccardo Rossi
L’essenza di Riccardo Rossi è dietro un fraintendimento.
Primo autografo?
Enzo Tarascio, uno dei protagonisti di E le stelle stanno a guardare: tremavo per l’emozione.
No, la domanda è: quando le hanno chiesto il primo autografo?
Scusi, non ci avevo pensato: una cosa del genere non l’avrei mai presa in considerazione (scoppia a ridere, a lungo, una risata di occhi, gola e pancia. Poi si riprende, ci pensa, si arrende) Mica lo ricordo.
Questo è Riccardo Rossi, 57 anni, modi e atteggiamenti senza tempo, senza età, senza prendersi troppo sul serio ma senza neanche sottovalutarsi: è una sorta di Nautilus del cinema e dello spettacolo italiano. Conosce tutti. Tutti lo conoscono. E ha attraversato i decenni al fianco dei suoi miti, li ha studiati (“acquistavo tutte le riviste patinate”) a volte copiati (“A partire da Alberto Sordi”), ci ha condiviso fasi della vita e in ruoli differenti: fan, comparsa, di nuovo fan, fattorino, apprendista, ufficio stampa, attore, showman e ora anche presentatore di uno dei migliori programmi della Rai, Battute.
Sempre accompagnato da un tono di voce due decibel sopra gli altri, e ama talmente tanto la sua vita da incrociare ricordi, passa da un episodio a un altro, li accavalla, poi torna indietro, una sorta di caos non calmo, ma comunque organizzato nella sua mente.
Quali sono le sue origini?
Figlio di impiegati delle linee aeree, fissati con l’impormi un’educazione seria.
Fino a quando?
Ho raggiunto la maturità, da quel momento è scattato in casa una sorta “mo’ fai quello che te pare”; in realtà ero entrato in una fase della vita in cui la confusione sul futuro detta la quotidianità.
E…
Ho iniziato a lavorare in un negozio di dischi e finalmente ho scoperto la musica, il pop, Michael Jackson, e dentro di me è scattata la rivoluzione; poi mi sono lanciato nelle più svariate imprese, in particolare il fattorino per la Ras Assicurazioni: avevano la sede nello stesso stabile dove vivevo e in più iniziavo la carriera da attore.
Come il film “College”.
Frequentavo una palestra e una mattina arrivano gli uomini del cast per trovare qualche caratterista; vado ai provini, ma senza aver preparato nulla, così mi lancio in una serie di battute. Castellano e Pipolo scoppiano a ridere. Mi blocco e urlo a Pipolo: “Lei è il padre di Fabiana! La frequento ad Anzio”.
Risposta?
“E allora? Manda una foto in bianco e nero altrimenti ci dimentichiamo di te”.
La sua prima battuta?
Non lo so, perché a scuola ero considerato un soggettone, e non riuscivo a scovare un modo per esprimermi, alla fine ho preso spunto da un mio compagno di classe.
Cioé?
Quando parlava descriveva le sue storie con una ricchezza e una padronanza assoluta del vocabolario, e da lì nascevano mondi affascinanti.
Quindi?
Ho iniziato a riflettere, perché sulla carta non ero male: leggevo tutti i giorni il giornale, traducevo bene dal latino, insomma ero preparato; così all’improvviso ho capito che infiocchettando il discorso e soprattutto raccontando delle avventure con il classico incipit “non sai che m’è successo ieri sera…”, potevo ottenere un discreto successo.
Argomento preferito?
In particolare le disavventure; da lì è cambiato molto, in particolare il rapporto con le donne (ride): la bellezza non è mai stata il mio forte.
Ma la svolta?
La Valtur; al colloquio di lavoro mi domandano: “Come parli il francese?”. “Come Alberto Sordi”. Bene, preso.
Faccia come il sedere.
Secondo D’Alatri (regista) ho le maioliche in faccia “perché puoi dire tutto a tutti”.
Si è arrangiato.
Per forza, i miei non volevano, per loro con l’arte non era possibile mangiare.
Va beh. La Valtur.
Tre mesi e mezzo d’estate e mi prendevano in giro perché mi alzavo apposta prima degli altri e solo per leggere il giornale; per me era fondamentale, mi serviva per gli sketch, oltre al libretto di proteste dei clienti: la sera, dopo lo show ufficiale, inizio a leggere e commentare i giudizi lasciati dai clienti. Pubblico morto dalle risate, anche il capo villaggio mi applaude divertito.
Poi…
Il giorno dopo mi chiama: “Bravo, mi hai fatto morire, ora piantala”.
Il villaggio è scuola di vita?
Ammazza! Con addosso la felpa Valtur si apriva ogni realtà sociale e personale.
Perché una sola stagione?
Mi piace la città, amo andare al bar, leggere il quotidiano, parlare con il negoziante.
L’animatore non diventa mai grande.
Un po’ è così, non che oggi io sia un adulto straordinario.
L’arrivo della fama.
Un po’ con I ragazzi della 3ª C, e soprattutto grazie alla pubblicità, ma lì nessuno conosceva il mio nome; in realtà ho vivacchiato per anni, e nonostante i telefilm continuavo nel lavoro di fattorino.
La riconoscevano durante il lavoro da pony express?
Esatto, e non me ne fregava niente; ma la prima svolta arriva nel 1984 agli Internazionali di Tennis di Roma, quando conosco Enrico Lucherini (celebre ufficio stampa) al villaggio vip: prendevo i suoi assistiti e li portavo alla postazione di Dimensione Suono.
Un altro lavoro.
No, gratis: mi piaceva andare lì e fare casino. Ho conosciuto chiunque.
Timido?
Mai stato.
Molti attori usano il palco per combattere i rossori.
Sono attore per caso, non so interpretare, riesco a portare in scena solo me stesso.
Scuole di recitazione?
Zero, giusto un po’ di dizione con Diana Dei, moglie di Mario Riva; Diana era stata in scena con Carlo Verdone a Senti chi parla al teatro Eliseo, un giorno lo scopro, impazzisco, e lei: “Di là ho i copioni”. “Che posso vederli?”. Li ho fotocopiati tutti, li tengo gelosamente a casa con a margine le note di Carlo.
Non butta via nulla.
Conservo tutto quello che mi piace, anche le memorabilia prese da Lucherini.
Ecco, Lucherini.
Quando mi ha chiamato ho lasciato la Ras (cambia tono e argomento). Oggi non avevo niente da fare, e mi sarebbe tanto piaciuto andare in motorino per delle commissioni. Quanto sarei stato felice.
Mannaggia.
A volte, quando sono libero, chiamo un’amica e la imploro: “Che fai? Ti accompagno”.
Fermo, mai.
Difficile.
Lucherini.
Una grande scuola di vita: da lui sono arrivato che psicologicamente ero un ragazzino e subito mi ha spiegato la differenza tra diario e agenda. Quante urla.
Esempio di rimprovero.
Entra in ufficio Mastroianni e gli chiedo un autografo; poco dopo viene da me Enrico: “No, questo è un lavoro, non un gioco, e qui non sei un fan”.
Semplice.
Mica tanto, da appassionato del grande schermo non riuscivo sempre a scindere il ruolo: già da ragazzo spendevo tutta la paghetta nei cinema di parrocchia, perché costavano meno (si ferma, torna a ridere). Ricordo il mio primo autografo!
Finalmente.
Durante I ragazzi della 3ª C ero militare: un giorno un superiore si piazza davanti, tira su il maglione e scopre l’avambraccio: “A Rossi, me devi fa’ l’autografo, perché devono vede’ che te conosco”.
Riproviamo: Lucherini.
Con lui ho lavorato alcuni anni, e grazie al suo stipendio sono riuscito ad andare a vivere da solo, poi mi sono affrancato e ho gestito autonomamente degli uffici stampa per i figli d’arte.
Chi?
Alessandro Gassmann e Gianmarco Tognazzi fissi, più altri come Lucrezia Lante della Rovere.
E allora niente riflettori?
Qualcosa sì, e grazie a Irene Ghergo: in una cena scoppia a ridere mentre racconto della mia dieta, così ne parla a Gianni Boncompagni e lo stesso Gianni decide di coinvolgermi in Non è la Rai con pezzi provati la domenica sera a casa sua.
Siete diventati amici?
Spesso andavo da lui per guardare la televisione, commentare, suonare e magari cucinare; per noi due il massimo era “scavettare”.
Sarebbe?
Smontavamo e rimontavamo i vari stereo di casa con combinazioni assurde; a volte riascoltavamo le cassette di Alto gradimento.
Lei è un’ottima spalla.
Effettivamente mi adeguavo; non mi piace ammetterlo, ma la mia carriera è un po’ nata per caso: prendevo quello che arrivava e dovevo capire cosa andava bene e cosa no.
È una dote.
Solo da qualche anno mi esprimo con i miei testi, prima non ci credevo, ero senza strutture e utilizzavo le suggestioni del momento.
L’attore è in parte l’arte di saper rubare?
È così. E alcuni miei toni di voce arrivano chiaramente da Alberto Sordi.
Conosciuto?
Sì, e per ottenere una foto con lui ho impiegato anni: lo aspettavo fuori Domenica In, lo seguivo a Cinecittà. Una persecuzione. Fino a ottenere il benedetto scatto durante i festeggiamenti per i suoi 80 anni.
Uno stop alla sua carriera?
Dopo Carramba, Forum e altri programmi del genere non andavo più avanti, ero e restavo un valletto; il salto è stato quello di diventare autore, pezzi comici nati nelle cene al ristorante, le stesse gag che potevo inscenare al liceo.
La matrice è sempre quella.
Il solito “non sapete che mi è successo…”.
Barzellette?
Non sono appassionato.
Viene definito “appassionato” della Roma.
Sono contento delle vittorie, niente di più perché di calcio non capisco nulla: i miei non mi hanno mai permesso di giocare una partita né di andare allo stadio. Un macello.
Proprio mai?
Giusto un paio di volte durante le medie; ricordo un compagno di classe che a un certo punto, sconfortato, esorta il resto della squadra: “Non avete capito che a Rossi non va passata la palla?”.
Una pippa.
Comprai degli scarpini usati e di un numero più piccolo.
Che manie ha?
Tante: sono pignolo, preciso, puntuale, ordinato; l’ordine mi serve proprio tanto, arrivo a coadiuvare la donna che mi aiuta in casa.
Nel curriculum ha Fiorello.
Una sera del 2002 mi viene a vedere in teatro con la moglie Susanna. Si divertono. E nel 2009 arriva una collaborazione. Anche lui è una scuola pazzesca.
Perché?
Non si ferma mai: ogni pretesto va bene per una risata, e ha un’energia mostruosa.
Lei è un comico?
Più un intrattenitore.
Una paura?
Suonare in pubblico il pianoforte.
Urla sempre.
Oramai è un marchio di fabbrica. Quando ho girato il mio primo e unico film, il direttore della fotografia, Maurizio Calvesi, durante la cena di inizio riprese prende la parola e spiega: “Ragazzi, una cosa su Riccardo: quando urla vuol dire che è contento”.
E quando si incavola?
Urlo di più o me ne vado.
Cosa la turba?
La sciatteria e l’errore reiterato.
I suoi primi film sono con i Vanzina.
Per me erano dei miti già prima di conoscerli, e dopo non hanno deluso neanche su una virgola: uscivo con Carlo e magari, da sconosciuto, mi trovavo a tavola con De Sica e Verdone. Felice come pochi. Non capivo più nulla.
Parlava?
Certo, sapevo tutto, e all’epoca non c’era Internet, così compravo tutte le riviste possibili: ero preparatissimo.
Sembra “Il conte Max”.
Era l’unico modo (e inizia a citare parti de “Il conte Max”); da mitomane sono andato all’hotel Miramonti di Cortina per scattare una foto al bancone dell’accoglienza, e lì ho rotto le palle a tutti i lavoranti compreso il direttore; poi ho scoperto che era stato girato in studio.
Ha visto e vissuto i suoi miti.
È quello che più mi piace.
Ne è rimasto deluso?
L’errore è confondere la persona con il personaggio.
Insomma, a 50 e rotti anni ha capito chi è lei?
Come dicevo l’illuminazione è arrivata grazie al teatro: l’altro giorno mi sono venuti a prendere a casa per raggiungere Viterbo; lì già era arrivato il service per luci e microfoni, un impianto audio perfetto, i proiettori, e il baule con il vestito di scena; ho pensato: che figata!
I soldi?
Non sono diventato ricco, non ho ottenuto conduzioni importanti, e in certi momenti mi domando: se dovesse andar male, come ne esco?
Risposta?
Conosco Roma come pochi, quindi potrei ricominciare da fattorino, ma con la consapevolezza di essermi comunque divertito e per tanti anni.