il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2019
Il capitalismo straccione scelse Tim come bancomat
Vent’anni fa Piero Gnudi, bolognese amico dei bolognesi importanti, era liquidatore dell’Iri, indefesso privatizzatore in attesa di più lucrosi incarichi da liquidatore delle aziende privatizzate e subito sfasciate dai mitici privati, per colpa (come dicono economisti e politici pagati per dirlo) della cultura anti-industriale che ammorba il Belpaese. Un giorno Gnudi annunciò, come un Gianfranco Battisti qualsiasi, che la vendita dell’Alitalia era questione di mesi, mentre ci sarebbero voluti 9 anni e la bancarotta. Ma gli scappò una cosa vera: “Siamo alle prese con società nate per essere pubbliche”. Ecco il problema. Le aziende pubbliche davano servizi e non profitti perché i partiti si accontentavano di rubare in modo “sostenibile”. I mitici privati si sono rivelati più voraci: nel loro dna miserabile c’era (e c’è) l’imperativo di rubare tutto, anche le cicche nei portacenere, a costo d’ammazzare l’azienda. Così hanno distrutto Ilva, Alitalia e soprattutto il vero gioiello, Telecom Italia, oggi Tim, un tempo Sip.
Quella frase fu detta da Gnudi proprio il giorno del maggio 1999 in cui l’Olivetti di Roberto Colaninno coronava la sua scalata ostile alla Telecom, privatizzata un anno e mezzo prima. Il governo D’Alema, in pieno delirio blairiano, sosteneva la “coraggiosa razza padana” (ma poi, quale coraggio? Tutta gente che non ha mai tirato fuori un solo euro di tasca) con la sapienza giuridica del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Bassanini. Proprio lui, oggi reincarnato nella singolare figura del neo-boiardo che propone rimedi agli errori mercatisti di 20 anni prima. Toccò al più privato dei privati, Umberto Paolucci, ambasciatore in Europa della Microsoft di Bill Gates, lanciare l’allarme sui rischi del leveraged buyout, la scalata con soldi prestati dalle banche e il debito conseguente scaricato sull’azienda comprata: “Bisogna vedere se, a causa dell’indebitamento, il gestore resta capace d’investire quanto è necessario per l’innovazione del Paese. In caso contrario, rischia il declino e il passaggio da una scalata all’altra”.
La follia si compì. Nel settore Telecom Italia era una delle più forti aziende del mondo. Colaninno ha speso per scalarla 30 miliardi e il debito di Telecom è balzato di colpo da 9 a 38 miliardi, la spesa per interessi subito da 700 milioni a 3 miliardi, per poi superare i 5 miliardi nel 2015. In diciotto anni le banche hanno succhiato a Telecom circa 60 miliardi di interessi, riducendo l’azienda a un vegetale. Nel 1998, appena privatizzata, aveva quasi 130 mila dipendenti e 30 miliardi di fatturato. Oggi i posti di lavoro sono meno della metà (54 mila) e i ricavi, scesi a 18 miliardi, risultano dimezzati se si tiene conto dell’inflazione. La profezia di Paolucci si è avverata nel modo più crudele: investimenti a zero, rete in condizioni comatose, livello dei servizi in linea con Cipro e Romania. A comprimere gli investimenti anche la necessità di riassorbire il debito che però è sceso solo da 38 a 24 miliardi. Così sono arrivati i grandi strateghi, con l’eterno Bassanini a tracciare il solco, che da sette anni offrono a Telecom il soccorso pubblico, con la formula cosiddetta mista in cui lo Stato mette i soldi e i privati se li prendono.
Anche il passaggio da una scalata all’altra si è puntualmente verificato. Nel 2001 Colaninno, che due anni prima aveva scalato Telecom da manager dell’Olivetti, vende alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e diventa un capitalista “molto ricco”, in grado di prendersi dalla Telecom la holding immobiliare Immsi. I pochi immobili che restano a Tim li vaporizza Tronchetti, facendoli “valorizzare” alla sua Pirelli Real Estate. Nel 2007 Tronchetti vende alla cordata Mediobanca-Generali-Intesa e torna al vertice Franco Bernabè, “scalato” otto anni prima da Colaninno. Per prima cosa dice ai sindacati di aver trovato l’azienda “spolpata”.
Ma lo spolpamento non si ferma: gli azionisti pretendono il dividendo, il management deve obbedire. E chi esegue ordini scandalosi si fa pagare: tra stipendi e buonuscite i top manager di Telecom succhiano via 2-300 milioni. È lunga da far ridere la lista dei numeri uno che hanno dato vita a un carosello da vaudeville: Colaninno, Enrico Bondi, Tronchetti, Riccardo Ruggiero, Carlo Buora, Bernabé, Marco Patuano, Giuseppe Recchi, Amos Genish, Arnaud de Puyfontaine, Fulvio Conti, Luigi Gubitosi. In vent’anni lorsignori si sono presi dividendi per una ventina di miliardi, che con i 60 di interessi fanno una tassa da 80 miliardi imposta al Paese. Nel vero senso della parola. Ci sono stati anche momenti in cui per fare tornare i conti hanno imposto ai dipendenti i contratti di solidarietà, per succhiare contributi allo Stato mentre erogavano dividendi e bonus ai manager. In particolare durante il governo Monti, quando il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, l’uomo che da banchiere aveva infilato Intesa Sanpaolo nell’incubo Tim, chiudeva gli occhi se per rifarsi rapinavano i contribuenti.
Alla fine si prova a regalare il gigante malato alla spagnola Telefonica, poi arrivano i francesi di Vincent Bollorè, infine la scalata del fondo americano Elliott, ispirato dall’ex numero uno dell’Eni Paolo Scaroni (stoppato sulla strada della presidenza dall’allora ministro Carlo Calenda) e spalleggiato dalla Cassa Depositi e Prestiti che sale al 10 per cento di Tim bruciando centinaia di milioni per un rastrellamento privo di senso.
Ora è il momento della tela di Penelope chiamata “rete unica”. Ma dietro i fumosi progetti di fusione della rete Tim con la Open Fiber (investimento suicida di Enel e della solita Cdp nella fibra ottica finanziato con miliardi di nuovo debito bancario) c’è sempre lo stesso obiettivo di sempre: scassinare la cassaforte del risparmio postale, appunto la Cdp. Naturalmente in nome del mercato.