Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2019
Raccontare il suicidio
Il suicidio, di solito, lo raccontano gli altri. Non in questo caso. A scrivere Svegliami a mezzanotte, infatti, è la suicida, che però «E poi sono caduta, ma non sono morta». Si chiama Fuani Marino. Nel suo nome, Fuani, si uniscono quelli dei genitori, Furio e Anita. Cosa li spinse a rendere così letterale la loro unione nel concepimento? Inutile dire che il mio mestiere fa di me un lettore particolare di questo libro. Un lettore turbato, strattonato. Afferrato dalla letteratura e interrogato dalla clinica. Una con più forza dell’altra. E poi una familiarità strana. Nelle parole di Marino l’eco di ciò che racconto ai miei allievi quando faccio lezione sui disturbi depressivi, dalle complessità postpartum alle poesie di Silvia Plath. Ancora più forte l’eco delle parole e dei silenzi di tante pazienti che ho ascoltato, simili e al tempo stesso irripetibili. Eppure una storia così non l’avevo mai sentita, «perché ogni persona ha la sua storia». Marino ha avuto il coraggio di raccontarla. Adesso è scritta, niente potrà portarla via. La narrazione ha sconfitto il suicidio. Ha stabilito una forma di verità sottraendo la morte alle spiegazioni facili e alle maldicenze. Le ci è voluto un po’ di tempo per capire che «bisogna scegliere, se mettere a tacere il tutto, ingoiarlo sperando che non riemerga più, che non ti scoprano, oppure fartene portavoce». Ci vuole coraggio a raccontarsi nudi e crudi. «Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta».
Prima di spararsi al cuore, Majakovskij scrive una nota: «Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi». «Non fate troppi pettegolezzi», ribadisce vent’anni dopo Pavese impugnando la pistola. Scrittori suicidi. Eppure scrivere può essere terapeutico, aiuta a pensare e a ripensare, mette a posto i ricordi. «Allora ho preso coraggio e mi sono buttata». Di nuovo il coraggio: buttarsi, sopravvivere, raccontarsi. Marino, però, non lascia biglietti: «Se non avessi fallito, se fossi morta davvero, nessuna parola di scuse sarebbe rimasta a fare le mie veci. Quando quel pomeriggio, dopo il mare, ho salutato mia madre lasciandole Greta, ho rivolto un ultimo sguardo a entrambe. Loro non sapevano, io sì». Sapeva che si sarebbe buttata, ma il “vero motivo” neppure a lei era chiaro. Forse non dovevano ridurle i farmaci per consentire l’allattamento. Ma può l’allattamento al seno essere una priorità? Al letto d’ospedale, mentre le spazzolava i capelli, la zia ha provato a chiederlo questo perché insondabile, ma «tutto quello che ho potuto rispondere è stato: poi la mia vita si è come interrotta».
Se nel memorabile film Un’ora sola ti vorrei Alina Marazzi ricuce i ricordi della storia di sua madre suicida per capirla e curarsi, qui Marino racconta la propria storia di madre suicida per capirsi e curarsi. Non c’è lo scarto di un osservatore, di una generazione: Marino è il narratore e il racconto. Come ha scritto Paolo Giordano, con questo libro Marino infrange tre tabù: il suicidio, la malattia psichica e il ritiro dalla maternità. Ne aggiungerei un quarto: il fallimento del suicidio. Ricordo che da specializzando, durante i turni in pronto soccorso psichiatrico, il mio professore diceva: se quando si risveglia dice «nemmeno questo ho saputo fare», dal punto di vista prognostico non è un buon segno. Marino ci ha pensato sei anni e poi ha scritto la sua storia. È un buon segno. Ha scritto: «Mi hanno chiesto che cosa farei se stessi male di nuovo. E la verità è che io non lo so, non posso saperlo. Spero che le persone a me vicine non si porranno scrupoli a ricoverarmi, questa volta». Anche questo è un buon segno. Il libro termina con una lettera alla figlia Greta. Il segno più forte e più bello.
Sopravvissuta al volo dal quarto piano di una palazzina di Pescara e definita dal chirurgo «una ferita vivente», Marino torna su quelle cicatrici e interroga la memoria. Non solo del suicidio, ma di tutto quello che c’è stato prima. Fuani bambina, i genitori, lo studio, le lezioni all’università, gli amici, gli amori, il lavoro, il matrimonio, i suoceri, la maternità. Svegliami a mezzanotte diventa il luogo di tutte le trame possibili per dar voce all’impossibile da comprendere. Nel memoir di Marino ci sono l’autobiografia, l’anamnesi, la diagnostica psichiatrica, il j’accuse, la psicoterapia, le cartelle cliniche. La scrittura procede a colpi di falce, ma si ferma in radure di dolcezza e baleni d’ironia. Ci sono la precisione feroce con cui Joan Didion rievoca la perdita (L’anno del pensiero magico) e il sarcasmo con cui Daphne Merkin fa i conti con la sua ideazione suicidaria (A un passo dalla felicità).
Da quel 26 luglio, l’unico desiderio che Marino riesce a formulare soffiando sulle candeline o lanciando una moneta nell’acqua è «che non mi accada più». Un’espressione che relativizza il ruolo della volontà – di suicidarsi come di non suicidarsi. Fa pensare che la decima causa di morte al mondo «ci accade» da più fronti: dall’infanzia, dal trauma, dalla paura di non farcela, dalla chimica dei nostri cervelli. La maggioranza delle persone che ha pensieri suicidi vuole vivere. Il pensiero suicidario ha bisogno di attenzione diagnostica e ascolto psichiatrico e sociale. Essere riuscita a raccontarlo liberandolo dallo stigma è un gesto di cura personale e collettiva.