Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2019
Le ultime dieci settimane di Weimar
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E anche la Germania di Weimar, dunque, all’inizio del 1933, finì per capitolare, lasciando il governo nelle mani di Hitler.
Non poteva, infatti, continuare a reggersi questa esperienza di costituzione parlamentare, in quell’Europa tra le due guerre mondiali, percorsa da tutti i rivendicazionismi di masse popolari disilluse dalle troppe ferite lasciate aperte dai trattati di pace.
Un’Europa dove si andavano via via spegnendo le speranze di democrazia e di armonia tra libere comunità nazionali, soffocate dal prevalere degli egoismi etnico-nazionalistici o classisti, giustificati dai miti di una pacificazione autoritaria imposta sovente con la violenza e con l’odio sistematico contro gli avversari interni o esterni.
Ed in particolare proprio in Germania, dilaniata dall’instabilità politica provocata dalla difficile soluzione della crisi economica e affidatasi alla razionalità democratica di un regime contestato dagli opposti estremismi di destra e di sinistra.
Del precipizio finale in cui cadde il Paese, annullando sotto il braccio teso di Hitler, la prima fragile esperienza democratica tedesca, ci offre un singolare racconto questa ricerca, rivolta a scandagliare le ultime dieci settimane della Repubblica di Weimar, individuando già nel titolo, I becchini, l’esistenza di ben individuati protagonisti in negativo della vicenda, snodatasi tra intrighi, menzogne e spudoratezze di un tutti contro tutti, con lo scopo di conquistare il potere.
La particolarità intrigante di questo tentativo sta nel suo costruire una sorta di palcoscenico le cui scene sono scandite dal succedersi dei giorni posti quasi come mutevole fondale all’agire dei protagonisti, osservati nelle loro fisionomie e nel loro abbigliarsi: attori, dunque, visti da spettatori privilegiati, quali sono i giornalisti, i compilatori di diari, gli stessi personaggi del palcoscenico con i loro appunti preziosi e le loro lettere, compulsati dai due autori, in una drammaturgia che avrebbe le cadenze di una pochade, se non preludesse al suo funesto epilogo per la Germania e per il mondo intero.
Certo, in questa particolarità sta anche il limite del lavoro, che non va e non vuole andare, proprio per la sua dimensione di spettacolo oggettivamente riprodotto, oltre le interpretazioni date all’istante dai commentatori presenti, senza le valutazioni di un poi, lasciate tutte al lettore trascinato in questa impetuosa successione di eventi, da decifrare in una più riflettuta comprensione.
Ecco, allora, che incontriamo un Goebbels, «ometto piccolo e secco: torace piatto, testa grossa, occhi castani, capelli neri. Zoppica per le sequele di una osteomielite infantile che gli ha lasciato un cosiddetto piede equino». E lo stesso Hitler intervistato dalla giornalista americana Dorothy Thompson, che lo descrive con un volto che «è già di per sé una caricatura», con però il «lampo inconfondibile che brilla nello sguardo dei geni, degli alcolisti e degli isterici [apparendo] un uomo in stato di trance». Viene rimarcata la monumentale imponenza del presidente Hindenburg, senza trascurare figure “minori” come il suo segretario di stato, Otto Meissner, dall’occhio vigile e che «sfoggia un baffetto grigio. I suoi completi, spesso indossati con tanto di pochette,sembrano sempre troppo piccoli di una taglia.
In quella Berlino, attraversata da violenti e contrapposti cortei, spesso insanguinata da delitti politici, sprofondata in una apatica e, ad un tempo, rabbiosa miseria, gli osservatori, soprattutto americani, sembrano perdere il filo delle trame imbastite al vertice dello Stato, mentre – annota il poeta Loerke sullo sfondo del 10 dicembre – «è arrivato l’inverno. Il tempo è tetro, i pini sembrano silhouette. Il terreno è gelato. Solo gli ultimi crisantemi si aggrappano ancora agli steli senza perdere i colori». Ma nei giorni di gennaio della suprema decisione del presidente di affidare il cancellierato ad Hitler con von Papen vice, la temperatura si abbassò fino ad oltre 20 gradi sotto zero, quasi presagio di un ben altro generale gelo futuro.
Al termine della “rappresentazione”, resta negli autori la convinzione che quella presa del potere nazista non fosse predestinata, riaprendo l’eterna disputa sull’inevitabilità o meno della storia, sicuramente favorita – come in questo caso – da ricostruzioni basate sulle opinabili scelte soggettive dei protagonisti.