Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2019
A tavola con Pier Domenico Gallo
«Questo convento fu fondato dai monaci cistercensi nel 1619, quattrocento anni fa. Quando Cavour sancì la separazione fra Stato e Chiesa, le leggi Siccardi nel 1850 ne provocarono l’esproprio a favore dei conti Incisa Beccaria. Vent’anni fa l’edificio era in decadenza. La famiglia non intendeva sistemarlo. Il sindaco di Santo Stefano Belbo mi disse in dialetto piemontese: “catlu ti”, “compralo tu”. Andai dal vecchio conte. Lui decise di tenere i vigneti, ma di cedere la struttura».
Pier Domenico Gallo è conosciuto come un uomo della finanza milanese. In particolare, deve la sua notorietà a tre ragioni: è stato prima il direttore generale e poi l’amministratore delegato del Nuovo Banco Ambrosiano, ha realizzato nel corso della sua carriera una serie di quotazioni in Borsa e ha fondato Meliorbanca.
Gallo è di Cossano Belbo, un paese a due passi da Santo Stefano. Sua madre Pasqualina era una casalinga. Suo padre Luigi era il veterinario di Cossano, una professione umile e vicina agli ultimi nella Langa agricola e contadina del Secondo dopoguerra, la terra della malora di Beppe Fenoglio, nulla a che vedere con la ricchezza di oggi prodotta da quel mix altrove irriproducibile di grande impresa (la Ferrero di Alba), di turismo di alto livello («metà dei nostri ospiti è americana, la nostra stagione alta coincide con quella del tartufo, da settembre a Natale siamo prenotati da un anno all’altro», dice Gallo) e di una tradizione del vino – con il Barolo e il Barbaresco quali elementi più noti – che ha da tempo costruito un vero sistema economico, simbolico e culturale.
Gallo ha fatto il liceo classico Govone ad Alba e si è laureato in Legge a Torino: «Avevo Norberto Bobbio e Gastone Cottino come professori di filosofia del diritto e di diritto commerciale». Dunque, ecco perché il sindaco di Santo Stefano Belbo Luigi Ciriotti – medico condotto e primo cittadino ai tempi della alluvione del 1994, quando il Tanaro esondò distruggendo ogni cosa – gli chiese vent’anni fa di acquistare e sistemare il convento.
Siamo nel bistrot del San Maurizio, il relais fondato da Gallo e gestito oggi da due ragazze poco più che ventenni, le sue due ultime figlie Giuditta e Arianna. Il San Maurizio ospita il ristorante Guido da Costigliole. Guido è il ristorante, un tempo a Costigliole d’Asti, che, nella seconda parte del Novecento, è stato un punto di riferimento per la cucina e l’identità, il vino e la società di questa parte d’Italia, in quel particolare impasto di cultura e di politica, di passione civile e di sguardo disincantato sul mondo, di ricerca epicurea del riserbo e di impulsi improvvisi e quasi calvinisticamente peccaminosi nei piaceri del corpo che è la quintessenza della piemontesità: agnolotti del plin (nella ricetta appunto di Guido Alciati e di sua moglie Lidia) e Mario Soldati, carne all’albese e Giulio Einaudi, vitello tonnato e Cesare Pavese (nato proprio qui, a Santo Stefano Belbo), bollito di Carrù e Giorgio Bocca, barolo di Bartolo Mascarello e appunto Bobbio. In quella dimensione – fra letteratura ed epos, quotidianità e mito – che è stata sintetizzata da Umberto Eco nella frase «Cesare Pavese ha portato Omero su queste colline».
Guido è ospitato nel relais San Maurizio. Questa sera il ristorante è chiuso. Ma, nel bistrot, lo chef stellato Luca Zecchin – una stella Michelin – è lo stesso che opera da Guido. Nella parte vicina al bistrot l’artista inglese David Tremlett ha decorato i muri della cappella, dopo avere creato vent’anni fa – insieme a Sol LeWitt – la cappella del Barolo a La Morra, su commissione dei Ceretto, famiglia di produttori di vino. Nelle segrete del convento, la cantina ha 30mila bottiglie. I piatti sono quelli di Guido: la rivisitazione della cucina piemontese tradizionale, senza alcuna concessione al kitsch dell’ “esperienziale” e al filosofico televisivo che, nell’annichilimento delle gerarchie, hanno dipinto con lo smalto del cibo il nulla contemporaneo.
«Assaggia le acciughe del Cantabrico. E mangia anche la lisca, che prima è passata nella farina di riso e poi viene fritta. Si polverizza in bocca», spiega Gallo. Niente da dire, i bagnetti al verde (prezzemolo) e rosso (pomodoro e peperone) sono come devono essere. Come anche le composte di fichi e pomodori, di prugne e peperoncino piccante. In tavola, arrivano poi il girello e il vitello tonnato, insieme a un nebbiolo Bruno Rocca. Gallo, ottant’anni quest’anno, è stato un personaggio emergente nella Torino degli anni Settanta, dove si è distinto per la quotazione della piccola Banca Subalpina (di proprietà degli Agnelli, del Sanpaolo e della Cassa di Risparmio di Torino) e dove ha rifiutato l’offerta a cui nessuno allora, non solo in quella città ma in tutta Italia, usava dire di no: «Si era liberata una posizione di Ifil a New York. Gabetti me la offrì. Incontrai l’Avvocato. Non me la sentii. Mi sono sempre chiesto come sarebbe andata la mia vita se avessi detto di sì», dice mentre vengono serviti i tajarin al tartufo.
Gallo è una persona centrale nella Milano degli anni Ottanta, quando entra – come “capomacchina” – del Nuovo Banco Ambrosiano, concepito sulle ceneri della banca di Roberto Calvi da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi e progettato – fra finanza e politica, potere laico e aura cattolica – da Giovanni Bazoli. «All’inizio pensavo che non ce l’avremmo fatta. Avevamo contro la Mediobanca di Enrico Cuccia, che pensava alla Comit come perno del riassetto del sistema bancario, e il gruppo che si stringeva intorno a Cesare Merzagora, che sembrava estendere l’odio verso Calvi a tutta quanta la banca, per quanto quest’ultima non c’entrasse nulla con il vecchio Ambrosiano. Controllavamo formalmente il Corriere della Sera, che però ogni giorno non esitava a criticarci. E, allora, il Corriere era il Corriere».
In quel passaggio storico, i due elementi che mutarono lo scenario furono un fatto tecnico e operativo – in cui Gallo ebbe un ruolo molto significativo – e un fatto di contesto e di strategia, in cui il dominus fu Bazoli. «Il passaggio tecnico – ricorda Gallo – fu il reverse takeover sulla Centrale, una società che controllavamo e che era quotata. Con quella operazione, portammo in Borsa il Nuovo Banco Ambrosiano e, a quel punto, per il blocco della finanza laica a noi ostile fu difficile andare contro i 30mila azionisti della nuova banca».
In quel caso, dunque, l’Ipo – l’Initial public offering, l’offerta iniziale di acquisto che rappresenta una delle principali forme, per quanto non troppo diffuse e radicate in Italia, di modernizzazione del mercato finanziario – servì come un arrocco difensivo rispetto al sistema di potere italiano, che avversava il primo nocciolo duro del futuro nuovo perno della finanza cattolica, di cui il peraltro laico Gallo era appunto il “capomacchina”.
L’altra mossa riguardò, invece, il Corriere della Sera e il suo nuovo azionariato. «Fu una battaglia cruenta. Bazoli tenne fuori dall’azionariato la Montedison di Mario Schimberni, per il cui ingresso premeva il segretario del Partito Socialista Bettino Craxi. Riuscì a trovare il punto di equilibrio fra la Gemina, cioè la Fiat, e il nucleo cattolico, imperniato sul Nuovo Banco Ambrosiano. Per Gemina, trattava Cuccia. In Piazza Filodrammatici, prima di firmare, lessi l’atto e mi accorsi che, rispetto agli accordi, le percentuali erano impercettibilmente ma significativamente cambiate a favore di Gemina. Diedi di gomito a Bazoli. Bazoli, che quando si arrabbia cambia colore in volto, diventò tutto rosso. Io dissi che c’era un problema. Vincenzo Maranghi si alterò: “Dottor Gallo, lei pensa che in Mediobanca non sappiamo fare i conti?”. Cuccia si rivolse a lui e disse: “Fammi controllare”. Uscì dalla stanza, credo per telefonare a Torino. Poi rientrò e serafico spiegò: “Le segretarie hanno sbagliato a battere a macchina i numeri. Cambiamo le cifre sul contratto e andiamo avanti”».
La tensione del racconto non si trascolora soltanto nel ricordo di episodi di quarant’anni fa che hanno determinato la storia del Paese. Si scioglie anche con il Nebbiolo e con gli agnolotti del plin, cucinati secondo la ricetta di Guido senza condimento e serviti dentro al tovagliolo bianco, mangiati uno a uno come se fossero caramelle, oppure disposti nella terrina con il sugo d’arrosto.
Gallo, allora, era a Milano. In ufficio e a casa, vicino a Porta Romana, insieme alla moglie Aurelia. Con, nei primi sei mesi del Nuovo Banco Ambrosiano, le lettere minatorie, le telefonate di minacce e la scorta. E, poi, negli anni successivi l’attività appunto in Meliorbanca. Ora, invece, Gallo è qui. A Santo Stefano Belbo. E, quando non è qui, è a Lugano: «Credo nella finanza e nei mercati dei capitali. Sono essenziali per sostenere lo sviluppo dell’economia. La holding lussemburghese a cui fa capo il San Maurizio, che ha un numero significativo di soci e che controlla anche il relais Antica Badia a Ragusa, fattura una trentina di milioni di euro all’anno. Si tratta però di una dimensione ancora piccola. Per fare turismo di élite, e perché gli investitori facciano confluire il loro denaro su questa particolare forma di lusso italiano, servirebbero 20 strutture societarie come la nostra».
In tavola arriva la sbrisolona fatta di nocciole, zabaione freddo e amaretti: in una ricomposizione moderna, tre ingredienti fondamentali della cucina piemontese. Gallo declina e sceglie della frutta, concessione salutista e molto milanese di un piemontese non cupo, che è dunque tornato sulle Langhe: anche perché per chiunque – ma soprattutto per chi è nato su queste colline – «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli», come scrive Cesare Pavese in La luna e i falò.