Davvero la musica può fare tutto questo?
«La mia vita l’ha salvata sicuramente, in anni di grande lotta con me stesso.
Se non avessi avuto quel canale, quel fiume in cui andare a nuotare e sfogare quando mi sentivo un disadattato… Da adolescente ero diverso da tutti i miei coetanei, già lavoravo, non m’interessava il calcio, ero grasso, non avevo quindici fidanzate, facevo mezzanotte per lavorare in una radio privata e avevo buoni voti a scuola. Dico la verità, io l’ho fatto sempre per me, ho un forte senso di autoconservazione, però succede di ricevere sensazioni di rimbalzo a cascata. Non voglio sembrare drammatico ma io se non avessi avuto una finestra dalla quale poter dire fanculo al mondo le cose sarebbero state diverse. Tante persone, tanti ragazzi non ce l’hanno, e il processo di autodistruzione scatta. C’è l’incapacità di urlare, e la musica ci aiuta a farlo, e quindi non è un’iperbole: la salvezza di un singolo vale quanto quella del mondo».
Lei oggi è un quarantenne dall’aria solida, indossa una t-shirt nera attillata, ha le basette ben curate e porta con orgoglio il suo momento di felicità. Le sue canzoni sono anche un modo di trasmetterla agli altri?
«Nella sfera sentimentale sono stato fortunato, c’è chi non ci arriva mai, io sto vivendo una vera e propria seconda adolescenza, la mia prima storia l’ho avuta solo a trent’anni, delirio, casino, poi ho preso le misure, qualche frequentazione più o meno inutile, e a quasi quarant’anni ho scoperto aspetti del sentimento che non conoscevo. È strano ma va bene, da ragazzo era lotta, negazione, ripudio, respingevo il mio modo di essere, a trent’anni l’ho accolto, e oggi mi ritrovo sposato. È abbastanza incredibile e devo dire che ancora mi fa strano sentire dire "tuo marito", è surreale.
Quando mi è arrivata la proposta ho pianto, sì, non ci pensavo nel modo più assoluto, ma dalla mia reazione ho capito che l’essere umano celebra l’amore da sempre, è naturale come repirare o mangiare, anche quando non c’era neanche la religione, che poi ha incasinato le cose, c’è sempre stata l’esigenza di celebrare l’unione con una compagna o con un compagno, magari prima non lo capivano perché non è che l’omosessualità non esistesse, semplicemente non se ne poteva parlare».
Come e più di sempre il nuovo disco, "Accetto miracoli", sembra una seduta di autoanalisi, una scoperta, una rivelazione interiore.
Dov’è che maggiormente ci ha messo l’anima?
«Nel brano Il destino di chi visse per amare . Potrebbe sembrare una canzone d’amore, ma non lo è, in realtà ho simulato un dialogo tra la nuova e la vecchia versione di me, quando canto: "ho creduto a vent’anni fosse il momento migliore" e l’altro risponde: "se non fosse che a quasi quaranta lasciamo stare". È una canzone discretamente amara, ma senza quella versione di me non esisterebbe quella di oggi, quella versione era più faticosa ma era l’unica che conoscevo, non è rigetto del passato, è come dire: ho fatto il meglio che potevo fare in quel momento».
Ogni artista stabilisce un patto col suo pubblico. Qual è il suo?
«Ho dovuto prima mettere a posto delle cose con me stesso. E ora la verità è più facile da sostenere. Se c’è una cosa che mi ha legato alle persone è la trasparenza. Se sento qualcosa di patinato mi fermo e torno indietro, per questo passano tre anni tra un disco e l’altro, ormai me ne accorgo ho imparato a capire quando faccio un esercizio o quando mi concedo la libertà di non stare zitto».
Ma è possibile essere così sinceri nell’artificiale mondo dello spettacolo, tra ipocrisia e hater scatenati che fanno dell’odio una professione?
«Io non ho parlato di questa mia relazione prima di capire veramente cos’era, ma quando mi sono sentito più sicuro e l’ho condiviso mi è arrivata addosso una valanga d’amore. Alla fine ho capito che se usi i social media per ispirare le persone, la cosa richiama attenzione in modo più profondo dell’odio. Con l’odio magari ottieni al momento più visualizzazioni ma non lasci tracce profonde. Ispirare cose buone può sembrare meno pirotenico ma alla lunga lascia una scia più forte».
Non ha paura di sembrare eccessivamente buonista?
«Lorenzo mi disse una volta: tu devi andare per la tua strada, perché tu parli con la lingua della gente, se ti attaccano perché sei buonista non mollare. E lui ha ragione, lui è uno che impone la sua verità, sempre».
Nella canzone che dà il titolo al disco c’è quella pausa, quell’esitazione sulla parola miracoli, come un respiro ritmico che genera espressione. Possiamo dire che è la sua firma di stile?
«Me lo diceva sempre Fiorella Mannoia, mi chiedeva di questo mio modo di cantare, come l’avevo inventato, da dove arrivavano quelle pause, come se aspettassi una ritmica che non arrivava, io le dicevo: Fiorella non lo so, è il mio modo di cantare, non lo noto neanche, mi viene così. Pensi che in quel pezzo ho tenuto la voce del provino, mi sembrava talmente autentico che non avrei mai potuto rifarlo meglio».
E poi questa volta c’è addirittura un pezzo, "L’uomo pop", a esaltare il suo ruolo. Si tratta di vero eroismo?
«Beh, alla fine l’artista pop è quello che fa il lavoro sporco, quello che porta il titolo meno blasonato però poi si sporca le mani, parla delle persone alle persone, c’è una frase di quella canzone che mi piace. "Il futuro si fa cupo, il futuro si fa vecchio, te lo dice l’uomo pop, l’inventore dello specchio". Magari sono solo un artigiano però ti metto davanti a uno specchio».