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 2019  dicembre 01 Domenica calendario

Intervista a Paolo Rossi

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Treno Milano-Roma: una volontaria in cerca di fondi per un’associazione benefica si avvicina al viaggiatore che tiene davanti a sé le bozze di un libro intitolato «Quanto dura un attimo». La ragazza chiede: «Di che cosa parla?». «Della vita di Paolo Rossi». Silenzio. Sguardo smarrito. «Non sa chi è Paolo Rossi, l’eroe del Mondiale 1982 che segnò 6 gol in 3 partite dopo un inizio disastroso?». «Ehm, mai sentito nominare. È grave?». A raccontarglielo, Pablito ride. E ribatte con lo scatto dei bei tempi: «Non si preoccupi. L’altro giorno in stazione a Milano un gruppo di diciottenni mi ha fermato per chiedermi una foto con loro. E vengo da Abu Dhabi, dove ho appena incontrato 800 ragazzi, altri 800 a Pescara...». 
Ma è anche per questo che ha scritto per Mondadori, (con la moglie Federica Cappelletti) una nuova autobiografia, che potrebbe diventare anche una fiction o un film? 
«Un po’ sì, per tenere fresca la memoria e vivo il ricordo. Che non è solo mio. È degli anni 80, di quel Mondiale che ha lasciato un ricordo bello, positivo». 
A questo proposito: il 27 novembre Mancini ha compiuto 55 anni. Gigi Garanzini ha calcolato che quando Bearzot vinse il Mondiale ne aveva 54. Eppure per tutti era il «Vecio». E lei adesso ha più anni di lui... 
«Un po’ mi fa effetto. Quando arrivai in Nazionale vedevo Bearzot come una persona di un certo tipo, con una certa esperienza. Oggi se penso a Mancini mi sembra uno giovane. Ma quelli di Bearzot erano 54 anni di un altro vissuto. Ci sono persone che nascono così, già mature da giovani. Come Bergomi. O Tonali oggi: sembra che abbia già 30 anni». 
Lei invece aveva e ha l’aria da ragazzo. Ma, come ricorda nel libro, con una dote: «Giocare sull’anticipo, pensando sempre cosa fare un attimo prima che mi arrivasse il pallone». Quel «decimo di secondo» che le fa segnare l’1-0 nella finale contro la Germania. C’è qualcuno in cui lei rivede qualcosa di simile? 
«Forse un po’ Agüero del Manchester City: anche lui gioca sull’anticipo». 
E da noi, a parte il classico paragone con Inzaghi? 
«Ma io ero più tecnico... Al limite mi rivedo in Mertens del Napoli, per la sua evoluzione da esterno a prima punta. Anche se lui ci è arrivato più tardi di me». 
Già, perché nel 1976 Paolo Rossi è una promettente ala di neanche 20 anni quando, dopo tre infortuni alle ginocchia, viene spedito dalla Juventus al Lanerossi Vicenza in Serie B. L’allenatore è il romagnolo Giovan Battista Fabbri. Che le dice: «Macché ala, tu sei un centravanti». Però fatica a convincerla... 
«È vero. Il calcio di Fabbri era modernissimo, i difensori dovevano costruire, i terzini attaccare e io ero la punta unica che con i suoi movimenti faceva inserire i centrocampisti». 
Promozione in A nel 1976-77, secondo posto dietro la Juve l’anno dopo, con Paolo Rossi autore di 24 gol e capocannoniere. Dal suo libro si capisce che oltre a Bearzot, decisivi nella sua vita sono stati anche Fabbri e Giussi Farina, che di quel Vicenza era presidente. 
«Fabbri dava gli stessi consigli di un padre. Spesso mi invitava a pranzo a casa sua. Se lo immagina oggi un calciatore che va a pranzo a casa di Conte o Mourinho?». 
No, anche perché è probabile che Conte dia da mangiare pochissimo. Farina, invece, passa alla storia come un astuto affarista, anche se per strapparla alla Juve spese molto più del necessario, ingannato da una soffiata su quanto Boniperti avrebbe messo nella busta dell’asta per il riscatto della sua metà (allora si faceva così). Però lei scrive di un uomo affettuoso e molto legato a lei. 
«Sono vere le due cose. Nelle trattative non guardava in faccia nessuno. Ma con me era diverso: “Non ho mai amato nessun giocatore, tranne Paolo”, diceva». 
E perché, secondo lei? 
«Perché per lui sono stato come un sogno che ha voluto vivere, rubandomi alla Juve. E infatti amava ripetere che “Rossi era diventato Rossi grazie al Vicenza”». 
E poi c’è Bearzot. È vero, come scrive Piero Trellini nel suo libro «La partita», che quando lei era squalificato per il calcioscommesse da lui ricevette un grande aiuto, ma che una volta venne a trovarla e le disse che aveva dei «fianchi da fattrice normanna»? 
«Sì. E al massimo avrò avuto un paio di chili di troppo, mica 25! Me lo disse ridendo, ma questo era lui». 
Cioè? 
«Un uomo non facile. Quando ti parlava non aveva l’aria paterna. Era un po’ rigido. Buono, ma rigido. A volte, poche, ti dava una carezza. Ma più spesso usava il bastone». 
E infatti lei scrive che, dopo i suoi tre gol al Brasile, non le disse nemmeno una parola. 
«No. Però era forte e gagliardo se c’era da difenderci all’esterno: noi gli abbiamo voluto bene anche per questo». 
E per l’extra di latte e biscotti la sera, perché lei nel frattempo per lo stress aveva perso 5 chili. Ad aiutarla in quel Mondiale fu anche Antonello Venditti e la sua «Sotto la pioggia» che lei e Cabrini cantavate tutte le sere in camera in ritiro. Gliel’ha mai detto? 
«Certo. L’anno scorso mi ha anche chiamato sul palco a un suo concerto per farmi cantare “Giulio Cesare”: “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”...». 
Però dal libro si capisce che lei era molto più feroce di quanto sembrasse.
«Sì, già ero supercompetitivo di mio. Poi ci sono stati gli infortuni e tutto il continuo di alti e bassi a rafforzarmi». 
Oggi lei fa l’opinionista alla Rai per le partite della Nazionale. Il ricordo di quel Mondiale di scontri feroci coi giornalisti influisce sul suo modo di lavorare? 
«Un po’ sì, cerco di misurare le parole: ci sono passato, so come ci si sente. Quello che vedo lo dico, ma sto molto attento al modo». 
E aver giocato ad alti livelli fa la differenza, nel commentare una gara? 
«Parecchi giornalisti di oggi sono più preparati di molti dell’epoca, ma certe cose le percepisci solo se hai giocato: per esempio certi movimenti o come un giocatore si rapporta con un compagno». 
Quali squadre le piace guardare in tv, non per lavoro? 
«Alcune di Champions: il City, il Barcellona. Però se una partita non mi piace, dopo 10 minuti mollo. Non sono un malato di calcio». 
Delle partite giocate è facile immaginare quali ricorderà sempre. Di quelle viste in tv? 
«La finale Italia-Brasile di Messico 70. Quella mi ha segnato. Avevo 14 anni, ma mi ci sono immedesimato, mi vedevo in campo a giocarla». 
Le succede ancora? 
«Qualche volta. Il fisico non funziona più, ma la testa sì. E mi ritrovo a dire cose tipo “io sarei andato sul primo palo!”».