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 2019  dicembre 01 Domenica calendario

La geniale formula diplomatica per Hong Kong

Da più di cinque mesi ormai Hong Kong è teatro di una crisi che contrappone le autorità di Pechino, sia pure indirettamente, ad alcuni movimenti giovanili, divenuti col passare del tempo sempre più combattivi. Per qualche osservatore (Gianni Riotta su La Stampa del 25 novembre per esempio) le proteste sarebbero un fenomeno generazionale che sta investendo molti altri Paesi in Africa del Nord, nel Medio Oriente, nel Levante e nel Subcontinente indiano. È una osservazione utile, ma Hong Kong ha una storia particolare che rende le sue vicende molto più importanti sul piano internazionale di quelle d’altri Paesi. Stiamo parlando di un’isola e di una penisola con 7 milioni di abitanti che appartenevano all’Impero cinese sino a quando nel 1842, dopo due guerre spregiudicatamente commerciali per il mercato dell’oppio, furono conquistate dalla flotta di Sua Maestà britannica e divennero un possedimento del Regno Unito. Il loro status giuridico fu ulteriormente definito nel 1898 quando i due Paesi decisero che la Cina avrebbe ceduto, oltre a Hong Kong, nuovi territori alla Gran Bretagna per 99 anni. I negoziati per la restituzione cominciarono con qualche anno d’anticipo sulla data di scadenza (1997) e si conclusero quando il governatore britannico della colonia (Chris Patten) e il leader cinese Deng Xiaoping dimostrarono di avere virtù comuni ed erano egualmente interessati a preservare l’importanza economica e finanziaria che la vecchia colonia aveva acquistato, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La geniale formula inventata da Deng fu: «Un Paese due sistemi». Il territorio sarebbe stato cinese, ma avrebbe avuto una costituzione democratica (la «Basic Law»), un Parlamento (il Consiglio legislativo eletto per metà a suffragio universale) e un capo del governo (Chief executive), scelto da un comitato elettorale composto da membri sensibili agli interessi e alle preferenze di Pechino. Questo sistema ha funzionato sino a quando il governo cinese ha cercato di fare approvare una legge che avrebbe consentito la estradizione verso la Cina di persone accusate di «reati gravi». Vi furono proteste comprensibili e civili che persuasero i cinesi, dopo qualche esitazione, a fare un passo indietro. Ma i movimenti giovanili, nel frattempo, allargavano l’orizzonte delle loro richieste divenendo per qualche giorno alquanto violenti; e Pechino cominciò a intravedere nelle manifestazioni una minaccia separatista. La formula «un Paese due sistemi» può non piacere all’America di Donald Trump, dal quale la Cina è trattata come un potenziale nemico. Ma piace all’Europa che non ha alcun interesse a pregiudicare i suoi rapporti con il più grande mercato mondiale e dovrebbe piacere anche a Pechino che può contare oggi su una grande piazza finanziaria internazionale a portata di mano. Grazie a una Offerta pubblica iniziale (in inglese Ipo) Alibaba, il colosso cinese del commercio elettronico, ha raccolto alla Borsa di Hong Kong, negli scorsi giorni, 11,3 miliardi di dollari. Con qualche aggiustamento e qualche reciproca concessione esistono le condizioni per un accordo che permetta di non rinunciare a una delle migliori formule diplomatiche concepite nella lunga fase della decolonizzazione.