Limes, 1 dicembre 2019
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
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A oltre vent’anni dall’ingresso dell’Italia nell’euro (maggio 1998), a cento anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi1 (dicembre 1920) che ne fu stratega e protagonista, la questione dell’euro è ancora rovente.
Fu scelta giusta, saggia per l’Italia entrare nella moneta unica? Poteva l’Italia entrare in un secondo momento e non nel gruppo dei primi paesi? Esistevano alternative all’adesione alla moneta unica che proiettava il sistema produttivo italiano all’interno di un’area a moneta forte con al centro uno dei paesi industriali più forti al mondo, la Germania?
Questa scelta, tra gli altri, è stata messa in discussione con veemenza da economisti come Alberto Bagnai 2, che la considerano origine di una potenziale stagnazione secolare del nostro paese, spirale segnata da bassi salari, bassi consumi, calo degli investimenti – fonti di una strutturale riduzione di competitività. Sono argomenti seri che non possono essere affrontati in modo affrettato e superficiale.
Gli attori che, in qualsiasi momento storico, si trovano ad assumere decisioni, operano sulla base di conoscenze incomplete e asimmetriche, di un complesso intreccio di obiettivi di breve e di lungo periodo, di convinzioni personali e condizionamenti esterni. Talvolta essi non sono neppure del tutto consapevoli di quale effettivo progetto e interesse stiano perseguendo; è infatti compito prima del cronista e poi dello storico ricostruire trama e contesto nel quale talune decisioni sono state assunte. Premesso tutto ciò, esiste un filo rosso che attraversa l’azione di Carlo Azeglio Ciampi e che forse non è inutile ripercorrere, per porre interrogativi anche critici sulle singole scelte fatte.
Quel filo rosso non fu, come si è detto e si sostiene, l’europeismo, ma al contrario l’interesse nazionale italiano 3. Ovvero la convinzione che lo Stato nazionale e repubblicano – che era ed è essenziale conservare e rafforzare – fosse in grave pericolo, che fosse dunque prioritario metterlo al sicuro con l’aggancio ai paesi europei più forti e avanzati in un inestricabile groviglio istituzionale. Le dinamiche decisionali di quei passaggi fondamentali che hanno contribuito a determinare la situazione geopolitica dell’Italia di oggi sono raccontate nella mia biografia di Ciampi 4.
La convinzione più diffusa, anche nei social media, è che l’Italia giunse all’adesione al trattato di Maastricht con una parità lira-euro assai penalizzante per l’industria italiana (1936,27 lire per un euro). In realtà altro non era che la trasposizione della parità di 990 lire per un marco tedesco (contro le 1.000 lire proposte dal governo italiano) deliberata nel consiglio Ecofin di domenica 24 novembre 1996, nel quale l’Italia richiese il rientro nel sistema monetario europeo e tutto venne deciso 5. Sull’importanza storica delle decisioni di quella domenica di 23 anni fa è importante insistere. Ciampi preparò accuratamente il suo intervento che è riprodotto integralmente nel mio libro 6.
Ma vanno ricordati due aspetti tecnici. Il primo è che si creò un dissidio piuttosto netto tra Ciampi e la Banca d’Italia, che la mattina del sabato 23 novembre 1996 aveva accettato al tavolo tecnico delle banche centrali una parità inferiore (cioè con un cambio più «forte» e penalizzante per la lira), a circa 960 lire.
Il ministro dovette quindi con fatica risalire la china di una decisione già definita. Decise di abbandonare l’ipotesi di parità concordata con il presidente del Consiglio Prodi, che partiva da quota 1010, puntando a ottenere quota 1000, in quanto il fatto compiuto dalle banche centrali rendeva irrealistica una richiesta tanto superiore. Il secondo punto è che Ciampi anche in quella occasione era pronto a far saltare il banco, facendo fallire l’intero progetto, se le posizioni italiane non fossero state considerate.
Dopo il suo intervento – un’appassionata arringa – nessuno prese la parola. Lui capì che girava male. E allora fece sapere che se l’Italia fosse stata costretta a una parità che non condivideva, avrebbe proposto il giudizio dei mercati, facendo fluttuare le monete: «E così vediamo dove si stabilizza il cambio». È chiaro che il mancato accordo avrebbe provocato un’ondata di vendite, facendo scivolare la lira a valori che avrebbero messo in difficoltà gli interscambi con Francia e Germania. La Francia soprattutto stava soffrendo la concorrenza italiana, come attestava lo scontro con il presidente Chirac di fine settembre 1996. La partita di poker scivolò, verso l’imbrunire, a favore dell’Italia.
L’aspetto paradossale della vicenda è che i nostri partner volevano imporre all’Italia una parità ben più penalizzante (925-940 lire per marco era l’ipotesi di partenza, spostata poi a 950-960), osservando che il nostro paese godeva di una svalutazione fortissima rispetto a quattro anni prima, attestata dal considerevole avanzo di bilancia. Il negoziato portò a incassare e cristallizzare la svalutazione di oltre il 20% del 1992 (quando il marco quotava 780 lire), a rinunciare – riassorbendola parzialmente – alla ulteriore svalutazione del 20% del 1995 (si toccò un picco di 1.200 lire per marco salvo poi ripiegare poco sopra quota 1.000). Ciampi era convinto che quella parità di 990 lire per marco, strappata ai partner con un negoziato furibondo, avrebbe dato all’industria italiana sette-dieci anni di vantaggio, offrendo il tempo per adeguarsi al sistema della moneta forte. Era questo il programma al quale lui si sarebbe dedicato. Questo programma era il cuore della «fase due»: come sopravvivere dentro l’euro. La «fase due» purtroppo saltò nell’ottobre del 1998, con la crisi politica che portò alla caduta del primo governo Prodi.
Quello che colpisce oggi, guardando ai fatti di allora, è la sensazione della fretta, di una sorta di urgenza estrema, nella gara per entrare nell’euro. Perché? Da cosa originava questa sensazione di battaglia per la vita e per la morte?
Una, non l’unica, ma una delle più rilevanti convinzioni che spinsero Ciampi a una fretta indiavolata, a una determinazione ferrea verso l’euro era la estrema preoccupazione per il progetto secessionista della Lega Nord di Umberto Bossi. Ciampi lo prendeva molto sul serio e ne era preoccupatissimo. Era qualcosa che lo angosciava, che non gli sembrava né chiaro né ben compreso. Pesavano in questo il ricordo del mese di ottobre del 1992, quando il governatore della Banca d’Italia sapeva che in assenza di interventi si sarebbe giunti entro una decina di giorni alla dichiarazione di insolvenza.
In quei dieci giorni ci fu una campagna leghista contro i Bot. Ciampi non si riprese mai dal terrore di quei giorni. Anzi, fu ancora più preoccupato da alcune interviste di Gianfranco Miglio (in particolare una al giornale austriaco Der Standard) mentre era presidente del Consiglio, sulla divisione dell’Italia in tre Stati-Cantoni, praticamente indipendenti. Non prese per nulla a ridere quelle dichiarazioni. E aveva ragione. Come confermato nel saggio di Umberto Gentiloni, dove si riporta una dichiarazione di Ciampi a proposito di una sua conversazione privata con Umberto Bossi: «Tempo dopo (Bossi, n.d.r.) mi rivelò qualcosa di più profondo. Ero stato per lui una grande rovina: i suoi interlocutori bavaresi e austriaci gli avevano assicurato che l’Italia non sarebbe mai entrata nell’area dell’euro. Pensava di poter agganciare la Padania all’Europa più ricca e sviluppata; il secessionismo di allora non era uno slogan folcloristico. La nostra politica mise in discussione tale assunto impedendo che si potesse trovare nuovo spazio a chi pensava di portare solo un pezzo d’Italia nell’Europa che conta. In questo quadro sconfiggemmo la sua linea» 7.
L’origine della spinta di Ciampi per l’ingresso dell’Italia nell’euro fin da subito e il progetto di puntare sul patriottismo e sull’orgoglio nazionale traevano origine dalla convinzione che fosse seriamente a rischio l’unità nazionale. L’idea stessa dell’accelerazione decisa dal governo Prodi nel settembre del 1996, anticipando di un anno il raggiungimento della soglia del 3% nel rapporto deficit-pil, con la necessaria imposizione della famigerata «eurotassa», non venne assunta solo per il fallimento del vertice con il governo spagnolo a Valencia – come è stato più volte ricordato dagli stessi protagonisti – ma anche perché due giorni dopo essere tornato da quel catastrofico incontro con Aznar, Ciampi assistette attonito in tv alla prima cerimonia alle sorgenti del Po, con Umberto Bossi che impugnava un’ampolla ricolma d’acqua. Dietro di lui decine di bandiere nuove di zecca con il simbolo padano, il «Sole delle Alpi». Gli parve una cerimonia neopagana che lo ammutolì, rapito in ricordi lontani. Furono questi elementi che lo spinsero con maggiore determinazione verso un obiettivo che gli appariva coincidere con l’interesse nazionale: modernizzare il paese, riorganizzare la macchina pubblica, intrecciare i nostri interessi economici e industriali con partner fortissimi, abbattere i tassi d’interesse, tornare a investire.
In questa ottica, appare surreale l’interpretazione di chi, anche recentemente 8 ha puntato il dito contro il patriottismo di Ciampi qualificandolo senza dubbi come nazionalismo di destra, anzi di estrema destra. La predicazione patriottica ciampiana avrebbe, a dire di un saggista einaudiano, aperto la strada prima alla legittimazione della destra di Fini, poi della Lega nazionalista salviniana. Ricordo distintamente che Ciampi salutò con sollievo – al momento della nascita del governo Berlusconi del 2001 – l’ingresso al governo di Bossi e di altri esponenti della Lega, ritenendo che questa fosse la premessa del superamento del rischio secessionista. Non apprezzò la riforma costituzionale del 2001, votata a maggioranza semplice in parlamento a fine legislatura, e voluta dal centro-sinistra, che indeboliva lo Stato centrale asseritamente per arginare la Lega nella campagna elettorale. Ma non fece nulla per fermarla.
In realtà, il patriottismo ciampiano aveva certo radici personali, ma poggiava anche su profonde motivazioni politiche e geopolitiche nate dall’analisi del travagliato percorso della sinistra francese, dalla sua incomprensione del fenomeno de Gaulle, fino alla svolta, insieme europeista e patriottica, della presidenza Mitterrand. Dopo la svolta finanziaria – uno stupefacente voltafaccia – del 1983 a favore della moneta forte, e l’accordo con la Germania, realizzato dal ministro delle Finanze Jacques Delors (il regista essendo Jacques Attali), la Francia aveva puntato sulla moderazione salariale, abbandonando le nazionalizzazioni, ma al contempo avviando una sorta di patriottismo socialista che fu il collante capace di rendere gestibile la svolta in economia e che culminò nelle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione nel 1989.
Sulla natura «progressista» e francese del patriottismo repubblicano di Ciampi (non un patriottismo costituzionale) mi sono dilungato nel saggio La riscoperta della Patria 9 riscritto nel 2012 e nel quale si indicano le riflessioni fatte da Ciampi sul pensiero di Ernest Renan, Robert Putnam ed Eric Hobsbawm. Ciampi immaginava qualcosa di simile all’esempio francese per la sinistra italiana, forse ingenuamente. Né si può dimenticare che durante il difficilissimo negoziato per il nostro ingresso nell’euro, quando Ciampi era stato più volte disposto a far saltare tutto il progetto, egli aveva immaginato un sistema monetario alternativo organizzato bilateralmente da Francia e Italia contro la Germania, ipotesi che propose al primo ministro francese Édouard Balladur e fece studiare al ministero del Tesoro prima che l’accordo Kohl-Mitterrand non chiudesse quella finestra negoziale.
Il patriottismo di Ciampi
Nel corso del 1998, al ministero del Tesoro si cominciò a lavorare per la «fase due»: come poteva l’economia italiana tornare a crescere e investire senza controllare tasso di cambio, tasso d’interesse, quantità di moneta?
Non era chiaro, allora, che si sarebbe giunti alla svalutazione salariale come strumento di politica economica per riportare in equilibrio il sistema, in assenza di una politica monetaria nazionale. Nessuno immaginava, nel 1998, l’inflazione zero, la deflazione. Si riteneva al Tesoro che con un 2% di inflazione, un bilancio in equilibrio, un avanzo primario al 4%, il debito pubblico sarebbe sceso con facilità negli anni. Ci sarebbe stato ampio spazio per gli investimenti. Ciampi confidava che l’accordo sulla politica dei redditi del 1992-93 fosse sufficiente a restituire flessibilità al mercato del lavoro.
Non immaginava proprio una vasta diffusione della precarietà, come elemento costitutivo del mercato del lavoro futuro. Lo schema Tarantelli-Modigliani, lungamente sostenuto dalla Cisl negli anni Ottanta, accettato dalla Cgil nel pieno della crisi valutaria, proponeva un modello di programmazione del tasso di inflazione atteso, come parametro per i salari. L’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993 appariva a Ciampi un capolavoro, il suo successo maggiore, un modello che proponeva a ogni interlocutore straniero. Ciò che si doveva aggiungere a questo modello, per affrontare il dopo-euro, era l’urgenza di «costringere», di spingere il mondo produttivo a un grande piano di investimenti. Anche in questo caso, forse, Ciampi si faceva delle illusioni.
Glielo disse apertamente Fausto Bertinotti in una conversazione (credo a casa di Sandra Verusio) che venne intercettata e riportata da Eugenio Scalfari in un magistrale articolo su Repubblica, nel 1998: «Non ti fidare dei capitalisti italiani Carlo, quelli si prenderanno il beneficio della svalutazione e dei bassi salari, venderanno tutto e se ne andranno all’estero o in barca a vela». Nonostante tutto, Ciampi abbozzò un programma che venne affidato a una lunga intervista il 21 agosto del 1998 al Sole-24 Ore che suscitò un putiferio («Il patto sociale di Ciampi. L’aumento degli utili dovrebbe provenire solo dall’ampiamento della base produttiva. Profitti unitari e più investimenti in cambio di maggiore flessibilità del mercato del lavoro», di Mario Calderoni e Alberto Orioli). Negli stessi giorni, mi chiese di organizzare una vera e propria campagna per riaprire la questione meridionale e pensare un nuovo programma di sviluppo per il Mezzogiorno. E per questo chiamò Fabrizio Barca al ministero del Tesoro e del Bilancio.
La crisi di governo dell’ottobre 1998 (con la sfiducia in parlamento per un solo voto) fu una tragedia per Ciampi che, a quel punto, decise che il suo obiettivo sarebbe stato quello di tornare a fare il presidente del Consiglio. Me lo disse esplicitamente. Consapevole di due aspetti politici: primo, non sarebbe più stato capo di un governo tecnico, ma di un governo del centro-sinistra; secondo: guidare il governo gli avrebbe precluso la strada verso l’elezione a presidente della Repubblica che, in qualche modo, già si intuiva possibile. Tra le due prospettive, Ciampi optò nettamente per Palazzo Chigi. Sapeva che fatta la scelta dell’euro adesso c’era davvero molta fretta per adattare il sistema economico e vedeva in questo la missione finale della sua vita. Voleva essere protagonista della «fase due».
Le cose non andarono in quel verso (ci fu la strenua, efficace, interdizione di Francesco Cossiga) e si giunse a governi di centro-sinistra più deboli di quello presieduto da Romano Prodi. Questo spianò la strada verso il Quirinale a Ciampi, che a un certo punto fermò il libro che avevamo già scritto per Rizzoli, e che era alle prime bozze (titolo: Un Paese serio), che nelle intenzioni avrebbe dovuto rappresentare un manifesto per un patto sociale per lo sviluppo all’interno dell’euro, da proporre come piattaforma al centro-sinistra.
Il patriottismo di Ciampi presidente della Repubblica va quindi inquadrato per quello che fu: un progetto che faceva parte di una strategia più vasta di politica economica e istituzionale che non si era potuta realizzare. Restava certamente la convinzione di dover sottrarre a un uso strumentale di parte il patrimonio storico-simbolico del patriottismo, proprio per evitarne un uso ultra-nazionalistico (che Ciampi preconizzava da tempo), per l’intanto da parte del centro-destra vittorioso, giunto nel frattempo al governo nel 2001.
Questa vicenda non è tuttavia inquadrata correttamente se non si fa un ulteriore salto indietro e non si capisce come si giunse al progetto di moneta unica e al relativo trattato, firmato nel febbraio del 1992 a Maastricht.
Esso origina almeno dieci anni prima, quando matura una svolta monetarista e antikeynesiana nella classe dirigente degli Stati Uniti che conduce all’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve guidata da Paul Volcker. In Italia è Ciampi a imboccare con determinazione la strada della stretta monetaria per abbattere l’inflazione, all’epoca oltre il 20%. Ma il vero protagonista fu Nino Andreatta, ministro del Tesoro, che progettò il divorzio Tesoro-Banca d’Italia e precipitò il finanziamento dei titoli di Stato in un mercato con tassi superiori al 15%. In questo modo aprì però la strada a una rapida disinflazione.
Fu giusto o sbagliato? Troppa fretta, precipitazione? Eravamo nell’epoca dei governi che duravano meno di un anno. Condivido talune critiche avanzate da Paolo Cirino Pomicino 10 su tempi e modi di una operazione che era coerente con l’idea di puntare alla disinflazione, alla politica dei redditi, alla riduzione dei tassi d’interesse per stabilizzare l’economia italiana.
Tutte queste azioni furono parte di un vasto progetto, che comprendeva anche mutamenti strutturali come quello che condusse all’Atto Unico europeo nel 1986 e che, attraverso la graduale liberalizzazione dei movimenti di capitale entro il 1992, creò di fatto le condizioni per rendere accettabile l’idea della moneta unica europea, o forse per creare una urgenza sistemica che, prima o poi, ne avrebbe reso necessaria l’adozione. Si determinò in quegli anni un rovesciamento di posizioni e di convinzioni politiche e culturali, soprattutto all’interno dei partiti socialisti e socialdemocratici in Europa. L’Atto Unico europeo viene predisposto materialmente da Tommaso Padoa Schioppa, direttore generale degli Affari economici e monetari alla Commissione europea, ma pur sempre in prestito da via Nazionale.
La creazione di un mondo nuovo, con l’esposizione del debito pubblico a un finanziamento da trovare in regime di mercati finanziari completamente aperti e liberalizzati, avveniva mentre si cominciava a predicare l’idea della programmazione, tra sindacati e datori di lavoro, del tasso di inflazione atteso, per sostituire la scala mobile, almeno cancellando il punto unico. Di questa battaglia fu protagonista il governo guidato da Bettino Craxi. Ciampi aveva immaginato di sostenere quel percorso di stabilizzazione finanziaria e fiscale che avrebbe potuto culminare nel cambio della moneta, l’introduzione della «lira pesante». Questo progetto venne abbandonato e sostituito dopo il 1988 dal progetto di moneta unica, proprio a causa dell’Atto Unico europeo
La tempistica della svolta di politica economica fu probabilmente sfortunata. Nello scoordinamento tra i diversi «vagoni» di uno stesso «convoglio» che accadde? L’esplosione del debito pubblico.
Per la stabilizzazione del bilancio pubblico (che avrebbe dovuto essere contestuale al divorzio del 1981) si dovette attendere il settimo governo Andreotti (ministro del Tesoro Guido Carli), nel biennio 1989-90, che portò l’Italia al pareggio del saldo primario e poi nel 1991 a un primo avanzo. Era troppo tardi. Il nuovo ordinamento – regime finanziario con piena libertà dei capitali – precipitò l’Italia nell’abisso dei mercati. Iniziò la saga dello spread. E si giunse nel 1992 alla storica manovra del governo Amato, che tuttavia giunse pochi giorni dopo la svalutazione del 13 settembre e dell’uscita della lira dallo Sme. Poi, a completare la stabilizzazione giunse la fondamentale azione di Lamberto Dini, con la riforma delle pensioni nel 1995.
La filogenesi di questa vicenda che cosa ci insegna? In primo luogo che se isoliamo il periodo dell’ingresso nell’euro – il biennio 1996-98 – l’Italia aveva ben poche alternative. Un ingresso forzato, anticipato, avrebbe massimizzato il beneficio in termini di riduzioni dei tassi d’interesse di un paese che era già, da tempo, in avanzo nella sua finanza pubblica. Era la tesi di Modigliani: l’aggiustamento dell’Italia negli anni Novanta era solo un gioco delle aspettative, il disavanzo italiano era (allora) frutto solo di illusione monetaria (dovuto a un differenziale esagerato nei tassi d’interesse) e quindi sarebbe stato facile farlo sparire, proprio con l’ingresso nella moneta unica, sfruttando i mercati a favore dell’Italia.
Questa fu la strategia di Ciampi, criticato (a ragione) per essere stato molto morbido nei tagli alla spesa pubblica, sui quali in fondo era scettico, proprio per non ferire la macchina pubblica. Il difficile sarebbe venuto dopo. Franco Modigliani, l’ultima volta che lo vidi, eravamo al Quirinale, mi lasciò con una profezia: «Ora l’Italia rischia di subire l’illusione monetaria al contrario. Penserete di avere un deficit basso, tassi bassi, ma non è così. In termini reali saranno più alti di prima e non ve ne accorgerete». E infatti fu proprio così. I benefici conquistati allora furono delle grandi, importanti, una tantum. Non si costruì la strategia per il futuro. Una strategia alternativa all’euro andrebbe valutata arretrando l’analisi storica controfattuale al principio degli anni Ottanta.
Un elemento che diventa essenziale per immaginare, oggi, una strategia per la crisi italiana è il sistematico diffondersi di una cultura antistatale. Anzi, potremmo individuare nella storia degli ultimi venticinque anni una sequenza ininterrotta di azioni presentate come atti di modernizzazione, efficienza, ma che di fatto sono state poi realizzate in modo distruttivo, quasi mosse da un nichilismo volto alla disarticolazione dello Stato nazionale italiano.
Ebbene qui troviamo una seconda motivazione, forte, profonda del progetto neo-patriottico del repubblicanesimo di Ciampi. Riformista sì, europeista certo, ma attraverso il rafforzamento dello Stato e della macchina pubblica. Posso testimoniare il suo profondo dolore per il diffondersi di letture distorte del libro La Casta, pur frutto di una inchiesta di due valorosi giornalisti, ma di fatto prodromo di una dilagante pujaderie contro i colletti bianchi, contro la «burocrazia», contro i dipendenti pubblici funzionale, paradossalmente, alla completa presa di possesso della macchina pubblica da parte del personale politico. Il tema della necessità di amare la macchina dello Stato porta a un’altra questione assai controversa: le privatizzazioni di quello che all’inizio degli anni Ottanta era il più grande patrimonio produttivo del mondo moderno, le Partecipazioni statali italiane. Nessuno può al momento dire una parola definitiva su questo fenomeno. Vi furono due tentativi falliti di non smantellare, ma di rinnovare, rendere efficienti le Partecipazioni statali. Il progetto di Giuseppe Guarino di creare due gigantesche super-holding nel 1992 11 aveva tratto origine da riflessioni del Servizio Studi della Banca d’Italia. Il secondo tentativo riguardò proprio Ciampi presidente del Consiglio, ed è stato recentemente raccontato da Paolo Savona, all’epoca ministro dell’Industria: l’ipotesi di creare un accordo strategico tra Francia e Italia in tutti i settori industriali, creando gruppi franco-italiani con nuclei azionari dei due governi. Oggi che noi siamo prede di appetiti francesi, parrebbe incredibile apprendere che negli studi fatti dal Tesoro nel 1993 – in occasione del vertice italo-francese di ottobre – l’Italia risultava ovunque in pareggio negli scambi azionari e talvolta in lieve vantaggio, per esempio nella telefonia e nelle due compagnie aeree. Quanto tempo è trascorso!
Ma il tempo e le occasioni perdute non fanno venir meno la possibilità di consolidare oggi ciò che è rimasto. Anzi lo rendono più urgente. Non è scritto da nessuna parte che l’ordinamento europeo vigente impedisca l’esistenza di un settore pubblico nella produzione di servizi e infrastrutture strategiche né che impedisca l’elaborazione di una politica industriale e di politiche di programmazione economica.
Infine, la questione tedesca. Un rapporto inevitabile, quello tra Italia e Germania, per storia, per interesse nazionale, per intrecci produttivi. Ma perché ci capiamo così poco? Come si spiega l’inflessibile durezza tedesca contro golden rule, investimenti pubblici, ipotesi di Eurobond? Perché l’ossessione di mettere le mani sul patrimonio italiano attraverso garanzie reali sui titoli di Stato? Perché una visione così neoclassica dell’economia e della moneta? Perché due pesi e due misure ai danni delle nostre banche (assai robuste nel confronto bilaterale)? I ricordi degli innumerevoli incontri italo-tedeschi gettano alcuni sprazzi di luce. Resta la necessità di una interpretazione più sistematica dei comportamenti strategici di Berlino, che deve partire dalla storia e s’intreccia con l’abitudine a piegare le politiche europee e gli assetti istituzionali dei trattati ai propri interessi nazionali.
Un punto su tutti: gli accordi di Deauville tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, che il 18 ottobre 2011 aprirono la strada al cosiddetto fiscal compact, non sono la logica conseguenza del patto di stabilità del 1996 né tantomeno del trattato di Maastricht. Essi rappresentano una rottura degli accordi europei degli anni Novanta. Vennero subìti dagli altri paesi, vittime di mera prepotenza. Ciampi li considerava pericolosi anche per l’Europa, non solo per noi. Furono le decisioni di Deauville a scatenare la crisi che passa sotto il nome (sbagliato) di crisi dei «debiti sovrani». Fu infatti la dichiarazione che la posizione di quel tipo di debiti avrebbe avuto un trattamento giuridico punitivo da parte dei governi europei (con trattato internazionale) a determinare la crisi sui mercati. Epilogo cupo di un nuovo disegno dell’Europa, completamente in contrasto con quello immaginato e sperato da Ciampi negli anni Novanta.
È stato scritto che l’Italia di oggi per Ciampi «non è il paese che sognavo», alludendo alla frase pronunciata da Giuseppe Mazzini nel 1870 12. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’Europa: «Non è l’Europa che sognavo». Si poteva prevedere che sarebbe finita così? Forse sì. Ma da tutto ciò si trae una conclusione: non possiamo disfarci dello Stato nazionale. Dobbiamo impegnarci a tenerlo in buona salute, costi quel che costi.
Note:
1. Si è svolto a Firenze, l’11 ottobre 2019, presso l’Aula magna del rettorato dell’Università degli Studi il secondo convegno internazionale di studi su Carlo Azeglio Ciampi organizzato dal comitato per le celebrazioni del centenario dello statista livornese, che coinvolge Accademia dei Lincei, Corte costituzionale, Banca d’Italia, Scuola Normale Superiore di Pisa, Università di Firenze, Centro di studi politici e costituzionali Piero Calamandrei, Paolo Barile e altre istituzioni. Il convegno di Firenze dedicato a «Carlo Azeglio Ciampi e il suo governo 1993-1994» è stato coordinato da Giuliano Amato, Andrea Manzella, Stefano Merlini, con relazioni di Piero Barucci, Paolo Savona, Luisa Torchia, Nicola Lupo, Giovanni Tarli Barbieri, e interventi e testimonianze di Valdo Spini, Giovanni Orsina, Franco Gallo, Luigi Abete, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni, Francesco Cavazzuti, Enzo Moavero Milanesi, Roberto Zaccaria, Gianfranco Pasquino.
2. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Reggio Emilia 2014, Imprimatur.
3. In chiave esclusivamente europeista e filo-germanica il saggio, ricco di importanti documenti originali e inediti, del compianto ambasciatore Antonio Puri Purini, Dal colle più alto. Al Quirinale, con Ciampi negli anni in cui tutto cambiò, Milano 2012, il Saggiatore.
4. P. Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi: l’uomo e il presidente, Milano 2007-16, Bur.
5. Ivi, cap. 8: «Il ritorno dal sofferto esilio ovvero il rientro della lira nel sistema monetario europeo», 2a ed., pp. 198-237.
6. Ivi, pp. 231-233.
7. U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, Roma-Bari 2013, Laterza, p. 40.
8. Ch. Raimo, Contro l’identità italiana, Torino 2019, Einaudi 2019.
9. P. Peluffo, La riscoperta della patria, venne scritto per una prima edizione Rizzoli nel 2008 e riscritto (ci sono circa cento pagine nuove) dopo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia nella edizione Bur del maggio 2012.
10. P. Cirino Pomicino, La repubblica delle giovani marmotte. L’Italia e il mondo visti da un democristiano di lungo corso, Milano 2015, Mondadori. Vedi il capitolo «La finanziarizzazione in Italia», pp. 92 ss.
11. A. Polimeno Bottai, Alto tradimento. Le carte segrete di Giuseppe Guarino. Privatizzazioni, Dc, euro: misteri e nuove verità sulla svendita dell’Italia, Soveria Mannelli 2019, Rubettino, pp. 67-94. Il capitolo sul fallimento di questo tentativo di riorganizzazione delle aziende pubbliche senza «svendita» è di grande interesse. Si sostiene ancora che Ciampi abbia partecipato al famoso ricevimento sul panfilo reale Britannia. A me, Ciampi ha ripetutamente raccontato di essere stato invitato ma di non aver preso parte all’incontro.
12. C.A. Ciampi, Non è il Paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Colloquio con Alberto Orioli, Milano 2011, il Saggiatore.