La Stampa, 1 dicembre 2019
Europa e Usa contro la Cina
Con il vertice della Nato che si apre martedì a Londra l’Europa e gli Stati Uniti si apprestano a compiere un passo senza precedenti: iniziare a definire una comune politica con la Cina di Xi Jinping. Sullo sfondo di quattro fronti di tensione con Pechino già esistenti su commercio, diritti umani, disarmo e tecnologie emergenti.
Il commercio è stato identificato come prioritario da Donald Trump sin dall’inizio della sua presidenza, nella convinzione che la Cina violi le regole dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) dall’adesione nel 2001: da qui una moltitudine di dazi e tariffe che si propongono di arginare la concorrenza sleale e di proteggere le proprietà intellettuali. Su questo fronte Washington registra più convergenze con Parigi che con Berlino – maggiore partner commerciale cinese in Europa – ma si aspetta che Ue e Giappone convergano su misure analoghe a quelle americane – come il deputato repubblicano del Wisconsin, James Sensenbrenner ha chiarito a un recente evento dell’Aspen – perché “assieme abbiamo la maggiore quantità di brevetti del Pianeta”. Nel complesso, l’intento della Casa Bianca è ridisegnare l’architettura del commercio globale per contenere la formidabile sfida che viene dal gigante cinese, impegnato nella realizzazione della “Nuova Via della Seta”.
Il secondo fronte sono i diritti umani e qui la novità viene dall’«Hong Kong Human Rights and Democracy Act» approvato pochi giorni fa all’unanimità dal Congresso di Washington e firmato da Trump, con cui si condizionano le relazioni commerciali con Pechino al rispetto dei diritti della popolazione di Hong Kong.
In maniera simile a quanto stabilì nel 1974 l’emendamento Vanik-Jackson nei confronti di Mosca per difendere diritti umani e libertà di emigrazione nell’allora Urss. Su questo terreno l’Ue ha già mostrato un’importante sintonia con Washington – con la presa di posizione comune pro Hong Kong – a cui bisogna aggiungere la diffusa solidarietà in più Paesi per ferite aperte come i diritti dei musulmani in Xijiang, dei monaci tibetani, dei cattolici in Cina e più in generale dei dissidenti.
Ma è il terzo fronte quello più nuovo, che terrà banco al summit della Nato, ovvero l’intenzione da parte dell’amministrazione Usa come del segretario generale Stoltenberg di premere sulla Cina per farle sottoscrivere accordi internazionali sul disarmo. Il non rinnovo da parte Usa del Trattato Inf con Mosca – sui missili a medio raggio – e la possibilità che nel 2021 scada anche lo Start – l’ultima intesa di questo tipo ancora esistente – nasce dalla volontà di includere Pechino per obbligarla ad ammettere argini a un arsenale nucleare e balistico oramai in grado di impensierire Usa e Russia. Basti pensare che Pechino ha il secondo bilancio militare del Pianeta – dopo gli Usa – dispone dell’unico missile nucleare ipersonico – il DF-17 – e che solo negli ultimi cinque anni ha aggiunto alla propria flotta ben 80 fra navi e sottomarini, pari all’intera flotta britannica.
Se a tutto ciò aggiungiamo la sfida nel cyberspazio dove la Cina è in chiaro vantaggio sull’Occidente perché dispone dei programmi più avanzati di intelligenza artificiale e più competitivi sulla tecnologia G5, non è difficile arrivare a comprendere perché la cancelliera tedesca Angela Merkel auspica che i Paesi alleati arrivino ad avere “posizioni comuni con Pechino e a sviluppare assieme la prossima versione del 5G” ponendo fine a una frammentazione che li rende più deboli. Il presidente francese Emmanuel Macron obietta che “Pechino non è un nostro avversario strategico” e dunque propone un approccio più nel segno del commercio che degli armamenti. Questo è il terreno su cui l’Occidente si misurerà al summit di Londra: quale approccio avere per affrontare la sfida cinese. E ogni Paese, Italia inclusa, sarà chiamato a definire la propria posizione.