Tuttolibri, 30 novembre 2019
L’amore e l’eros nella Grecia antica
Hay de amar a mar una letra solamente», soltanto una lettera distingue amare da mare: quando Don Giovanni, scampato a un naufragio e dunque ben esperto di entrambe le insidie, pronuncia queste parole nel primo atto del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, in piena temperie barocca, la parentela tra i due termini, favorita nelle lingue neolatine dall’assonanza, è ormai consolidata da una lunga tradizione letteraria che, passando attraverso i trovatori e lo Stilnovo, ha figliato una progenie metaforica tanto copiosa quanto spesso stucchevole. Anche per questo, forse, non è mai stata adeguatamente analizzata. Ma il fatto che la metafora sia diventata un topos consunto non la rende per ciò meno degna di studio, come argomenta il grecista Giorgio Ieranò nel libro Il mare d’amore, che scava alle radici del luogo comune non era ancora tale.
E alle radici si trovano naturalmente i greci. Anche se nella loro lingua il gioco delle assonanze non è dato, perché dei tanti nomi con cui designavano il mare nessuno è lessicalmente imparentabile con eros, e anzi il più diffuso, thálassa, di origine pre-greca, è di genere femminile. La relazione con «amore» si stabilisce dunque all’interno di un universo simbolico più complesso e sfumato, che Ieranò si incarica di districare nel suo saggio di straripante dottrina, spaziando dall’antichità all’età moderna e contemporanea, dal mito all’archeologia, alla storia e al cinema.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un popolo di navigatori, gli antichi greci non amavano troppo il mare. Lo frequentavano per i loro traffici fin dalle epoche più remote, ma sempre con un misto di timore e diffidenza. «La terra è affidabile, il mare inaffidabile», aveva già sentenziato Pittaco, uno dei Sette Sapienti. E Socrate, nel Gorgia platonico, osserva che solo per il desiderio di arricchirsi un uomo mette a repentaglio la vita affrontando i pericoli della navigazione. La marineria è vista come qualche cosa di folle, contro natura, e questo pregiudizio, corroborato dal disprezzo aristocratico dei proprietari terrieri verso il commercio, si estenderà al mondo latino e si prolungherà per tutta l’antichità e il Medioevo, per cominciare a dissolversi nella cultura occidentale soltanto a partire dal ’500.
Prima di allora, il mare era soprattutto un luogo di morte, la più esecrabile e penosa, in quanto priva pure del conforto di una sepoltura. Era il luogo dell’instabilità, dell’imprevedibilità e dell’insidia: in ciò rivelando la sua affinità con la donna (Varium et mutabile semper femina, scrive Virgilio nell’Eneide) e più in generale con l’esperienza amorosa, contraddittoriamente vissuta dagli antichi come fonte di piacere ma insieme di turbamento e spesso di sofferenza spirituale, in cui l’amante, specialmente (ma non solo) se non corrisposto, si sentiva come una nave in balia della procella.
«Onda amara di eros, passioni gelose che soffiate / senza tregua, mare tempestoso dei festini: / dove mi trascinate?», è l’interrogazione sgomenta che si legge in un epigramma di Meleagro, a rischio di finire sommerso nei flutti della passione omoerotica per il ragazzo Diodoro. Ma il naufragio in una tempesta marina, assicura a sua volta Menandro nel frammento di una commedia perduta, non è nulla in confronto al naufragio nel mare d’amore, perché in questo caso non si può neppure sperare nel soccorso di Zeus Sotèr. Ci si può bensì appellare a Afrodite - la dea dell’amore, nata dalla spuma del mare a cui resta inscindibilmente connessa, non a caso invocata in ogni luogo dai naviganti in difficoltà - che nella metafora marinara-amorosa è stereotipicamente rappresentata al comando della nave (il navigium Veneris), quale garante di quieti piaceri; ma il timone è saldamente tenuto da Eros, il suo figlio folle, impavido e oscuro, come lo descrive il poeta arcaico Ibico.
Governati da Eros, sospinti dai venti delle passioni che gonfiano le vele, insidiati dagli scogli sommersi dei tradimenti, come salvarsi? Il lessico marinaresco si amplia: «Hai tradito il mio amore e come una nave ti sei schiantato contro uno scoglio, / o ragazzo: ti sei aggrappato a una gomena fradicia», rimprovera Teognide, con trasparente doppio senso osceno, rivolgendosi a un ragazzo infedele al suo amante. Una possibile via d’uscita, sulla scorta dei filosofi ellenistici che vedevano i tormenti amorosi come un ostacolo alla ataraxía del saggio, è quella indicata da Cercida, generale e poeta spartano vissuto nel III secolo a.C.: poiché l’amore può essere sia tempesta furiosa sia lieve brezza, ammonisce, bisogna saper scegliere il vento propizio, usando con saggezza «il timone di Peithò» (la Persuasione) per «navigare diritti». Verso dove? Verso «l’Afrodite di piazza», ossia una prostituta: e «distesa costei per un obolo», potrai immaginare anche tu di essere come Menelao, l’uomo che sposò la donna più bella del mondo.