Tuttolibri, 30 novembre 2019
Storia della bicicletta
Nell’Italia del Nord occupata dai tedeschi, tra il 1943 e il 1945 la bicicletta fu il mezzo di trasporto più diffuso. Le reti ferroviarie e tramviarie erano state sconvolte dai bombardamenti, le distanze sembravano essersi mostruosamente allungate; allentatisi i collegamenti tra città e città, difficili anche quelli tra il centro e la periferia, lo spazio pubblico finì per frantumarsi in tanti piccoli mondi separati: la famiglia, il quartiere, la comunità, il villaggio. Le strade cittadine si affollarono di carretti a mano, robusti cavalli da traino, motofurgoni a carbonella. In quello scenario la bicicletta affermò il suo predominio, attirando, per le sue potenzialità «sovversive», anche l’ovvia attenzione degli occupanti e dei loro collaboratori fascisti
Dopo l’8 settembre si impose infatti ai ciclisti l’obbligo di un apposito «permesso» per circolare durante le ore di oscuramento. In seguito, per scoraggiare le azioni dei partigiani, questo obbligo fu esteso anche alle ore diurne. La bicicletta doveva essere denunciata in Questura; le famiglie dei renitenti alla leva e dei disertori dovevano obbligatoriamente consegnarle in Municipio. L’ordine valeva anche per chi - senza specifiche necessità di lavoro - ne possedeva una con portabagaglio.
Nella sua lunga storia sociale – puntualmente ripercorsa in un bel libro di Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta- non era la prima volta che la bici diventava un simbolo dell’eversione e del disordine. Anzi si può dire che fin dalla sua comparsa – verso la fine dell’Ottocento- era stata vissuta come la pericolosa manifestazione di una modernità pronta a sconvolgere le rassicuranti certezze del mondo ottocentesco. Nel suo dinamismo, nella sua velocità si intravedevano i segni «di un attentato al decoro di quanti rivestivano un ruolo pubblico», così da proibirla ai preti e agli ufficiali dell’esercito «perché ne metteva in disordine le vesti e le uniformi». Ovvia era anche la «sconvenienza» per le donne, costrette a «una scandalosa posizione a cavalcioni sulla sella» che veniva considerata un vero e proprio attentato alla loro tradizionale pudicizia.
Pivato documenta una diffusa «ciclofobia» in cui- accomunati dall’avversione verso le due ruote- si ritrovavano fianco a fianco Cesare Lombroso (pronto a denunciare i tratti inquietanti del ciclista delinquente) e le alte gerarchie del clero che parlavano addirittura di «neopaganesimo». E forti resistenze si riscontravano anche nel nascente movimento operaio, allora tendenzialmente contrario a uno sport che, così come veniva interpretato, non serviva che «a speculazioni industriali … e a innescare nelle masse giovanili un nazionalismo gretto e assurdo».
In realtà la bici era destinata a un futuro radioso e molti di questi atteggiamenti si sgretolarono di fronte a uno sviluppo impetuoso che – proprio sull’onda della modernità e del progresso - vide gli italiani impadronirsi del nuovo mezzo per lavorare e per divertirsi. Così, anche grazie a una progressiva diminuzione dei costi, il cicloturismo da un lato e la propaganda legata alle prime gare ciclistiche dall’altro, favorirono una sua sempre più importante diffusione. Il Touring Club ciclistico Italiano, fondato nel 1894, ne fece poi una pietra miliare del progetto di «fare gli italiani», utilizzandola come strumento di educazione e accompagnando «le passeggiate» dei soci con l’idea di patria e di nazione, in un’intensa opera di pedagogia civile.
A sdoganarla definitivamente intervenne la Prima guerra mondiale. Legata per sempre all’immagine eroica del bersagliere ciclista Enrico Toti, la bici fu più prosaicamente impiegata prima come mezzo di comunicazione per trasportare la posta, poi «come strumento strategico di offensiva». Da quel momento in poi, il suo percorso si intrecciò con tutte le fasi che scandirono progressivamente la nostra vicenda storica. A cominciare dai tumulti del «biennio rosso» e della conquista del potere da parte del fascismo, dai primi vagiti di un divismo sportivo che negli Anni Trenta Mussolini usò come efficace strumento di propaganda, e incrociando poi la guerra, la ricostruzione, la guerra fredda, (efficacemente riassunta nella rivalità tra Bartali e Coppi), il boom economico e l’avvento di un’Italia che della motorizzazione fece la bandiera del consumismo e del tempo libero. Per la bici si prospettava un inesorabile declino. E invece… lo choc petrolifero del 1973 segnò una svolta radicale. Le risorse energetiche del pianeta non erano infinite. Un nuovo modello di vita e di sviluppo si imponeva, pena la nostra estinzione. Nacque allora quello che Pivato definisce «un nuovo umanesimo».
Ed è come se oggi si stia per affermare una religione destinata a fare molti proseliti, con i suoi luoghi di culto (le piste ciclabili che contendono lo spazio urbano alle auto), i suoi i riti collettivi (celebrati sulle strade del Giro d’Italia o lungo i tornanti affrontati dalle folle dei ciclisti della domenica), i suoi valori (la frugalità, l’anticonsumismo, il risparmio energetico con l’uso di energie rinnovabili). Più che nel segno dell’antimodernità, direi che il cerchio si chiude attribuendo alla bici gli stessi caratteri potenzialmente eversivi dei suoi esordi.