La Stampa, 30 novembre 2019
Intervista a Omar Pedrini
Cominciamo dalla fine, dalla cronaca: lunedì 2 dicembre al Fabrique di Milano si chiuderà il tour Timoria – Viaggio senza vento. Una serata speciale che ha come sottotitolo L’ultimo concerto, il rock non morirà mai e che vedrà sul palco con Omar Pedrini anche una serie di ospiti come Eugenio Finardi, Mauro Pagani, il rapper Ensi, lo scrittore Nicolai Lilin, l’attore Nicola Nocella e l’artista Matteo Guarnaccia.
Pedrini, si tratta di una serata all’insegna della contaminazione. Come, in fondo, è stata la sua carriera, giusto?
«L’arte è gioia. Ho voluto chiudere il tour con una festa che fosse un happening artistico di musica, poesia, cinema, pittura, recitazione e reading. Già nel 1998 avevo creato il Brescia Music Art: furono quattro anni straordinari e psichedelici che portarono da Jovanotti a Battiato, da Manuel Agnelli a Raul Montanari. Si creavano performance incredibili: già allora cercavo la contaminazione. Ma è lo stesso album Viaggio senza vento a prestarsi a questa contaminazione. C’è poi un altro aspetto che mi sta a cuore: stanno di nuovo dicendo che il rock è morto, surclassato dal rap e dalla trap. Noi non ci stiamo. Il rock è vivo e sa dialogare con le altre arti, come ci racconterà Guarnaccia».
Il tour è stato un successo, non è proprio possibile una reunion dei Timoria, anche con Francesco Renga?
«Intanto diciamo che questo album è una pietra miliare nella storia del rock italiano e il primo disco d’oro per questo genere. Fu dopo il nostro successo, che gli Afterhours fecero il primo disco in italiano. È bello che ai concerti non ci siano solo i quaranta-cinquantenni ma anche i ragazzi perché parla di Joe, un ventenne in crisi. E veniamo alla reunion: io ci ho provato. Avevo coinvolto tutti, anche Francesco. Seppure, a parte il tastierista Enrico Ghedi, ormai sono degli estranei per me. Alla presentazione del disco a Milano ci siamo trovati in quattro su cinque, Renga ha mandato il manager. Quando poi ci hanno proposto il tour nei palazzetti, eravamo tutti d’accordo ma Francesco ci ha mandato una lettera per rifiutare: preferiva fare il Festival di Sanremo. A quel punto, anche gli altri hanno rinunciato. È finita che il tour l’ho fatto da solo, con la mia band. Ed è andato alla grande. Quello del Fabrique sarà il 48° live».
È più facile litigare o fare la pace?
«Litigare, senza dubbio. Io sono contento di avere fatto pace col mio passato. Se invece il riferimento è a Francesco, come sapete la nostra rottura è stata violenta e dolorosa, soprattutto per me. Non lo sentivo da anni, eppure, anche se non mi piacciono le cose che ha fatto ultimamente, ho capito che era giusto chiamarlo perché anche lui appartiene alla storia dei Timoria. È stato doloroso quando il mio manager mi ha obbligato a chiamarlo… Oh, era Francesco che andava a letto con mia moglie... Ma ho messo da parte l’orgoglio per amore dei fan dei Timoria e dell’opera più bella che abbiamo fatto insieme. Ha rifiutato. Credo che abbia perso un’occasione. E poi non è che a Sanremo gli sia andata benissimo».
A dispetto delle operazioni al cuore e degli stravizi del passato fatti di alcol e droghe, sul palco è un’esplosione di energia, come ci riesce?
«Sono stato otto anni in cattività, ero un leone in gabbia. Quando dopo la seconda operazione mi dissero che non potevo più cantare, fu il momento più brutto della mia vita: lo ricordo come la morte di mia madre. Cinque anni fa invece, con l’ultima operazione al cuore, mi hanno deviato le corde vocali e l’aorta per permettermi di cantare ancora: è stato come la nascita di mia figlia. Le altre attività, tipo l’insegnamento, sono le amanti. La musica è la moglie».
Quella di sposare Veronica prima dell’ultima operazione è stato un gesto disperato o di speranza?
«Disperato. Ventricolo e aorta erano sul punto di rompersi di nuovo. Operandomi avrei avuto il 25% di mortalità e il 40 di restare leso, con paralisi a braccio o gamba. Mio suocero, che è cardiochirurgo, ha operato per 15 anni a Houston, in Usa, mi aveva trovato un posto là dove la mortalità è del 7%. Ma avrei dovuto pagare 160 mila dollari. Non li avevo. Mi era rimasto solo il piccolo appartamento di Milano da 58 metri quadri comprato da mio padre negli Anni 90. Ci vivevo con Veronica e la piccola Emma Daria. Mi dissi: io posso morire per i miei eccessi e vizi, ma voi non finirete per strada. Mi hanno operato a Bologna: tre cardiochirurghi per dodici ore. Ed eccomi ancora qui. La Sanità italiana pubblica è un’eccellenza, non dimentichiamolo mai. Adesso sto bene, Faccio un check-up a Londra ogni 6 mesi per controllare che tutto sia ok».
Cosa c’è dopo la morte?
«Io cerco di seguire gli insegnamenti del Dalai Lama, negli ultimi anni ho riabbracciato la figura di Gesù e sto dalla parte dei preti missionari. Non so se sono buddista o cattolico. Sento Dio. Sto anche studiando l’Islam perché ho il nome musulmano, anche se mio padre l’ha scelto per Sivori… Credo che l’anima, o chiamala energia, sopravviva al corpo. Sarà che sono stato due volte in coma, ma io questa energia la percepisco tanto».
Chiudiamo con la questione più delicata: il suo amato Brescia si salva?
«Sì, sicuramente. Ma non con Grosso in panchina. Tornerà Corini. Senza togliere nulla a Fabio, perché chiunque abbia indossato la maglia con la rondine merita rispetto, ma Eugenio è uno di noi».