La Stampa, 30 novembre 2019
Asce, spadoni e Benetton
I Longobardi arrivarono in Italia nel 568 d.C. - a quasi un secolo dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente - guidati da re Alboino. Provenivano dalla Scania, la Svezia di oggi, con lunghe barbe, armati di asce e spadoni, coperti di pelli e seguiti da bestie in caso di merenda. Varcarono l’Isonzo e con un paio di randellate si presero la Valle Padana e qualcosa di più. Qui impararono la letizia delle sedentarietà, il gusto della pittura, della scultura, dell’architettura e dell’oreficeria, cioè del bello. E del buon mangiare. Si convertirono al cattolicesimo per i buoni uffici della regina Teodolinda presso papa Gregorio Magno e, insomma, fra di loro si dicevano: questi romani non sono più in grado di tenere in mano una lancia, però che ganzi, che pozzi di scienza, e così a un certo punto il re Rotari decise (nel 643) che era il caso di passare alla legge scritta, e promulgò un editto che porta il suo nome (Editto di Rotari, appunto). I Longobardi, con qualche mugugno per amore delle vecchie tradizioni, rinunciarono così alla faida (da feh, nemico), cioè al diritto alla vendetta, per passare a un diritto codificato, sottratto a furia ed emotività e amministrato da giudici sulla base di norme costanti. Un lungo preambolo per dire a Luigi Di Maio - il quale negli ultimi giorni ha ripetuto un paio di volte la proposta di levare le concessioni autostradali ad Atlantia per «vendicare le vittime del ponte Morandi» - che la sua è una dottrina molto suggestiva, ma riconsiderata da quasi quattordici secoli, e non nell’ordinamento giuridico del Senatus Romanus, ma in quello dei barbari con asce e spadoni.