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 2019  novembre 30 Sabato calendario

Biografia di Valerio Massimo Manfredi raccontata da lui stesso

Se lo spirito del capitalismo fosse alla fine mi piacerebbe che un Valerio Massimo Manfredi ne raccontasse gli spasmi conclusivi. Credo che nel cuore di ogni storico alberghi il tramonto di un’epoca. Manfredi è un archeologo sui generis che ha integrato la professione con il successo letterario. Vive a Piumazzo, una frazione di Castelfranco Emilia, non distante da Modena: «Sono qui le mie radici. Sono nato in un’antica cascina, poi mio padre comprò un paio di poderi ed edificò la nuova casa. Studiate, diceva ai due figli maschi. Era felice che ci riscattassimo. Ma se avete un’ora libera, quella mi appartiene. Con mio fratello Fabrizio, oggi agronomo paesaggista, sistemavamo la frutta nelle cassette e poi sui camion. È stata una buona scuola di vita. Ci sembrava di restituire, almeno in parte, quello che i nostri genitori ci avevano donato».

Oggi lei è un uomo ricco.
«Vivo bene con i diritti dei miei libri e grazie a tutto il resto che le mie storie innescano».
Poteva fare il contadino. Invece è diventato archeologo e poi scrittore di successo. A proposito quante copie hanno venduto i suoi romanzi?
«Parecchie. Solo Alexandros cinque milioni di copie. È tradotto in 35 lingue e distribuito in una settantina di paesi, tra cui la Cina, il Perù e la Russia. Ci tengo a precisare che scrivo storie e non bestseller».
Nel suo caso dov’è la differenza?
«La differenza è che non so mai prima quale sarà l’accoglienza del libro. Ma è ovvio che non sputo nel piatto in cui mangio. Essere popolari non vuol dire essere banali o, peggio ancora, mediocri».
Quando si è scoperto scrittore?
«Quando ho cominciato a scrivere. Ma la cosa che ho immediatamente capito è che la scrittura non può essere il tribunale dell’autenticità. Questo vale per pochissimi eletti. Tutti gli altri abbiano l’onestà di riconoscere che ciò che fanno è lavoro artigianale. Poi, se un domani qualcuno scoprisse che tra le righe di un tuo romanzo c’è qualcosa di più, tanto di guadagnato. A me la scrittura piaceva e piaceva anche l’archeologia. Ho avuto la fortuna, o l’intuizione, di mescolare le due cose».
Dove ha studiato?
«All’Alma Mater di Bologna. Ho avuto come docente Marta Sordi, specialista di topografia antica. Da lei ho imparato tantissimo. Era un talento soprattutto nell’interpretazione delle fonti. Leggeva molti libri gialli e una volta che le chiesi di questa sua passione. Mi rispose che tutto il passato si può vedere come una catena di enigmi da risolvere».
Lei si laurea in cosa?
«Topografia del mondo antico. Una disciplina meno eclatante dell’archeologia, ma senza la quale un archeologo avrebbe problemi a svolgere le sue ricerche».
In che senso è un aiuto indispensabile?
«Un territorio può presentare dei segni che fanno intuire o ritenere che sotto ci possa essere un insediamento».
Segni di che natura?
«Sono tracce diversissime. A volte perfino vegetali. Se un tratto del terreno ha, poniamo, una coltivazione più lussureggiante o dal colore più intenso, lì sotto si può ipotizzare che possa esserci un tumulo o una fortificazione. La spiegazione è semplice: quando piove e l’acqua penetra nel terreno, poi tende a fermarsi sotto i muri e le piante in superficie crescono più rigogliose. Quando ho fatto i rilievi delle centuriazioni dei territori dell’Emilia mi alzavo in volo con un trabiccolo e scattavo una serie di foto».
Cosa riprendeva?
«Un reticolo, composto da ampi quadrati, che testimoniava come i coloni romani dividevano il proprio territorio. Grazie a questa tecnica preliminare ho scoperto vari siti e partecipato a vari scavi».
Come si finanziava?
«Ho lavorato all’università Cattolica per sei anni. Molte soddisfazioni e qualche delusione».
Dovuta a cosa?
«Non mi fu rinnovato il contratto. Ci stetti male per sei mesi, anche perché non capivo perché fossi stato messo alla porta. Per fortuna passai quasi subito a insegnare alla Loyola University».
Alternava l’insegnamento con la scrittura?
«Sì, il mio primo romanzo Palladion uscì nel 1980. In realtà, avevo cominciato prima. Con un progetto che mi fu sottoposto da una piccola casa editrice — Malipiero — che faceva libri per ragazzi e divulgazione storica. Mi chiesero, per una loro collana, una storia ambientata nel mondo antico. A quel tempo mi occupavo di Sparta e, a proposito della leggenda dei 300 di Leonida, c’era anche chi sosteneva che un paio di quei guerrieri spartani si fossero salvati. Fu quello l’inizio del romanzo. Ma dovetti interromperlo perché nel frattempo la casa editrice cominciò ad avere dei problemi. L’ho ripreso anni dopo completandolo. Uscì nel 1988 con il titolo Lo scudo di Talos. Pochi mesi fa ha festeggiato il milione di copie vendute».
In che misura la Storia entra nei suoi libri narrativi?
«È lo sfondo senza il quale non esisterebbero. Quando ci sono, le fonti vanno usate. Per lo Scudo di Talos utilizzai i resoconti storici e letterari di Plutarco e Pausania».
E quando le fonti scarseggiano?
«La verità è che, salvo qualche eccezione, nel mondo antico le fonti sono rare e per questo preziose. Quando non ci sono, o appaiono contraddittorie, al romanziere resta come risorsa la fantasia».
Il suo nuovo romanzo “Antica madre”, edito da Mondadori, è ambientato nel primo secolo dopo Cristo, durante l’impero di Nerone. Un manipolo di soldati romani esplora una parte dell’Africa e arriva fino alle sorgenti del Nilo. Possibile?
«Fu Nerone stesso a finanziare la spedizione composta da due centurioni, un gruppo di legionari e forse anche da qualche pretoriano. Quando tornano dall’impresa, Seneca si fa raccontare la loro strabiliante avventura e in un brano di un suo testo riproduce la testimonianza. Anche Plinio accenna all’avventura di quei soldati romani, ma i documenti che l’attestano sono andati perduti. A me sono bastati questi due spunti per allestire la storia che vede al centro la figura misteriosa di una guerriera e regina etiope, fatta prigioniera e condotta a Roma».
Com’era il rapporto di Roma con l’Africa?
«Ovviamente di conquista. Furono numerose nei secoli le spedizioni. Marmi, spezie, schiavi, bestie feroci rifornivano il centro dell’impero. Un’economia del lusso crebbe a dismisura attorno a queste imprese. La cosa straordinaria era la capacità che nelle spedizioni africane i soldati romani avevano nell’adattarsi alle peggiori condizioni di clima e di territorio. Credo che nessun esercito abbia mai avuto una simile forza interiore. E immaginare oggi che cosa quegli uomini hanno compiuto e visto mi provoca qualcosa di vertiginoso».
Sarebbe possibile, alle stesse condizioni di allora, riprodurre quelle imprese?
«No, anche se è possibile rendersi conto della portata di quelle avventure».
A cosa pensa?
«A un certo punto della mia vita ritenni che valesse la pena ripercorrere, diciamo pure provare a rivivere, quello che Senofonte raccontò in maniera mirabile nell’Anabasi ».
Quel testo celebrava le gesta drammatiche e folli di un piccolo esercito di mercenari greci tra cui lo stesso Senofonte, al servizio di Ciro il Giovane.
«Senofonte partì in veste di osservatore e descrisse tutto quello che quasi 2500 anni fa poté vedere. La spedizione fu militarmente una disfatta. Ciro il Giovane, che aspirava a sostituire il fratello Artaserse sul trono persiano, venne sconfitto. La ritirata che raccontò Senofonte coinvolse all’incirca diecimila soldati mercenari. Nel suo resoconto c’erano errori e incongruenze, ma resta un documento straordinario.
Valeva la pena verificare quel viaggio provando a rifarlo».
In quanto tempo?
«Le spedizioni furono tre: 1978, 1979 e 1985. Mi incontrai con un collega inglese all’aeroporto di Istanbul. Insieme andammo sul sito noto come “Il trofeo dei diecimila”, un tumulo di pietre, che fu innalzato nel punto in cui i diecimila soldati di Senofonte videro il mare. Poi da Smirne attraversammo l’Anatolia, scendemmo lungo l’Eufrate per risalire il Tigri e poi dall’Armenia in Kazakistan risalendo per la costa Nord del Mar Nero fino a tornare nuovamente a Bisanzio, l’odierna Istanbul. Percorremmo in tutto 16 mila chilometri con delle Land Rover. In condizioni a volte proibitive, percorrendo mulattiere e altipiani desertici. Dormivamo nei sacchi a pelo e dentro a delle tende. È stata la missione più importante della mia carriera, che raccontai in un libro molto apprezzato dallo storico inglese Robin Lane Fox. Mi chiamò per tenere un seminario a Oxford su quella esperienza».
Robin Lane Fox era anche l’autore di una delle più importanti biografie su Alessandro Magno.
«Sì uno studioso straordinario, un genio nelle sue ricerche da storico. Anche il suo libro Pagani e cristiani è bellissimo. Gli sono grato per l’amicizia. E per aver reso la nostra intesa perfetta».
A lei che gli ha dedicato una trilogia cosa ha insegnato la figura di Alessandro?
«Al di là della leggenda è il primo monarca in cui la sete di conoscenza e di conquista appaiono illimitate. Non fu mai un distruttore di civiltà: le trasformava conservandone l’anima. La sua visione, del resto, fu alla base dell’ellenismo».
Ai suoi lettori cosa prova a trasmettere?
«Credo che la cosa più importante sia l’emozione. Quando presentai il mio “Alessandro” a Parigi, alla fine si avvicinò un signore piccolo con una coroncina di capelli. Mi disse che era un contabile che passava tabulati tutti i giorni. Poi, aggiunse, lei mi ha fatto cavalcare Bucefalo. Ecco, per me la narrativa è come cavalcare Bucefalo».
Bucefalo era il cavallo di Alessandro. Come distingue la leggenda dal fatto storico?
«Studiando, confrontando e verificando le fonti. Ma non sempre è sufficiente. Io, per esempio, sono convinto che la Guerra di Troia sia stata effettivamente combattuta e il suo esito provocò il collasso della civiltà micenea. È chiaro, però, che un narratore non può fare a meno delle leggende. Perché ogni leggenda riempie anche i vuoti che la storia lascia. Perciò i poemi omerici perduti li trovo altrettanto seducenti sul piano della fantasia di quelli che abbiamo studiato a scuola».
Lei che è un topografo e un geografo dell’antichità, che idea ha della Storia?
«È il tentativo del genere umano di scrivere la propria memoria, in qualche modo archiviarla. È dalla memoria che nasce l’identità. Un tratto per tutti noi indispensabile perché non possiamo vivere senza di essa. L’identità è un ponte fra culture diverse».
Può diventare anche il peggiore degli ostacoli.
«È vero, ma solo perché dimentichiamo la Storia. Se cancello l’identità di qualcuno, prima o poi verrà qualcun altro a cancellare la nostra. È questo che vogliamo? La letteratura può contribuire ad aprirci verso mondi che non sono i nostri. Di cui non sospettavamo neppure l’esistenza. La letteratura crea emozioni, come il cinema, come la musica, come l’arte tutta. E lo fa con il solo strumento che ha a disposizione: la scrittura».
La sua è di sicuro successo. Come vive questa condizione?
«Con cautela e sapendo che ogni volta il lettore ti può voltare le spalle».
E se fosse il critico a farlo?
«Sarebbe oggettivamente meno grave. Ho rispetto per la categoria dei critici anche quando da zoppi, come diceva Oscar Wilde, ti vogliono insegnare a correre. Il successo, poi cos’è? Una volta il mio amico Giuseppe Pontiggia, dopo aver scritto il risvolto a un mio romanzo, mi disse “Valerio ti trovo un po’ strano, che hai?” “Sento che molti nel mio ambiente mi guardano strano”. “È che non ti perdonano il successo”, disse. “Se si diffonde la notizia che stai per morire tutti ti compatiranno; ma se scoppi di salute cominceranno a guardarti con sospetto e a invidiarti”. Da allora, pensai, meglio non parlare del mio successo».