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 2019  novembre 30 Sabato calendario

I 40 anni di London Calling dei Clash

Londra chiama le città lontane/ adesso la guerra è dichiarata/ e incomincia la battaglia/ Londra chiama i bassifondi/ ragazzi e ragazze venite fuori": Londra chiama e noi siamo venuti. All’uscita della metropolitana abbiamo seguito un gruppo di rasta, punk e altri personaggi vestiti strani ed eleganti con lunghi spolverini e grandi cappelli. Era già come essere in Westway to the World, il film di Don Letts che racconta la storia, folle e bellissima, dei Clash. Eravamo in Punky Reggae Party, la canzone di Bob Marley che celebrava la sacra alleanza tra punk e rasta. Eravamo in Rude Boy, il film sulla band che al contempo racconta di questa sottocultura, nata in Giamaica e trasferitasi poi in Inghilterra, di ragazzi di strada, disoccupati e senza un soldo che però vestivano sempre all’ultima moda. Paul Simonon veniva da lì e i Clash sono i primi a mescolare punk e musica reggae perché andavano alle serate di Don Letts quando faceva il dj. Mentre camminavamo con tutta quella gente eravamo Last Gang in Town, come cantavano loro, solo che nessuno di noi aveva più vent’anni e non stavamo andando a un concerto dei Clash ma ad un museo: il Museum of London che celebra con una mostra i 40 anni di London Calling, il capolavoro dei Clash, il disco che cambiò la vita a molta gente celebrando l’apertura al jazz, al reggae, allo ska e persino al pop di un genere molto definito come il punk.

Tutto era iniziato nel 1976 quando il chitarrista Mick Jones, accompagnato dal bassista Paul Simonon, incontrarono per caso Joe Strummer all’ufficio di collocamento dove sia Jones che lui stavano facendo la fila per il sussidio. In realtà lo stavano tenendo d’occhio da un po’ perché erano alla ricerca di un cantante e lo avevano visto all’opera con il suo gruppo di allora, i 101’ ers. Forse lo stavano fissando un po’ troppo perché Strummer si ricorda di aver pensato: « Credevo volessero fare a botte per cui stavo vagliando chi era meglio prendere a pugni per primo: decisi per Mick perché sembrava più magro. Paul aveva l’aria più tosta » . Qualche tempo dopo, con l’aggiunta prima di Terry Chimes e poi di Topper Headon, probabilmente il miglior batterista del suo tempo, sarebbero diventati i Clash: lo scontro, il conflitto nei confronti di tutto ciò che li opprimeva, ipocrisia, razzismo, valori stantii. «Fu bellissimo registrare London Calling » , ricorda Topper Headon. Era il 1979. Il produttore Guy Stevens è l’unica persona che poteva funzionare per gli standard dei Clash: « Mentre suonavamo distruggeva delle sedie, si aggirava minaccioso con una scala in mano. Pensavamo: " Questo è impazzito". Ma era un grande», racconta Simonon. Per girare il video di London Calling venne chiamato Don Letts: «Era solo il mio secondo video, il primo era stato Public Imagedei Pil di John Lydon (l’ex cantante dei Sex Pistols), eravamo sul Tamigi e avevo messo una telecamera su una barca che ha cominciato ad allontanarsi. Ci avevo messo un secolo per allestire la cosa e si stava incasinando tutto. In più stava diventando buio e si è messo a piovere. Ero disperato e allora ho iniziato a girare», spiega Letts. Quel video è entrato nella storia.
Come hai conosciuto i Clash?
«Sono diventato loro amico perché ai tempi avevo un negozio in King’s Road che si chiamava Acme Attraction dove suonavo la musica che mi piaceva. Ci veniva un sacco di gente: i Clash, le Slits, Johnny Rotten e anche artisti che passavano in città come Patti Smith. Mi piaceva l’attitudine e lo stile dei Clash: erano differenti dagli altri punk».
Ti piaceva anche la loro musica?
«Un giorno la mia fidanzata mi ha portato a vederli e io sono andato fuori di testa. Non capivo una parola di quello che diceva Joe ma l’energia era incredibile. Erano dinamite» .
È vero che una volta hai litigato con Bob Marley per difenderli?
«Nel 1977 Marley viveva a Londra e stava proprio in King’s Road, vicino al mio negozio. Devo essere onesto con te: l’avevo conosciuto perché gli procuravo l’erba. Non perché io fossi uno spacciatore ma perché era il modo di conoscerlo, di averci a che fare. Avevo 18, 19 anni e lui era il mio eroe. E così un giorno vado a trovarlo perché mi doveva un po’ di soldi ma avevo questi calzoni da punk con le cerniere in stile bondage. Mi guarda e mi fa: "Ah, Don Letts you look like a nasty punk rocker", "Assomigli a uno schifoso punk". Leggeva quegli stupidi tabloid che davano un’idea terribile del punk! Gli ho detto: "Bob ti sbagli! Questi ragazzi bianchi sono miei fratelli e sono dei ribelli. Ascoltali, c’è qualcosa lì dentro!". E lui: "Ok, vattene fuori di qui!". Tre mesi dopo scrisse Punky Reggae Party in cui citava i Clash insieme ad altre band punk invitandoli a un immaginario party reggae-punk con la sua band, i Wailers, e i Maytals. Una vera e propria alleanza, capisci?».
Così tutta la storia dell’unione tra punk e reggae nasce da qui?
«No. Nasce dal Roxy, un locale dove facevo il dj. Era il primo club punk in Inghilterra ma eravamo così agli inizi della scena che non c’erano dischi punk da suonare e così suonavo ciò che amavo: il reggae. Per mia fortuna ai punk piaceva. E gli piaceva perché anche quella era musica anti-establishment: adoravano le linee di basso. E anche l’erba».
E poi i Clash adoravano anche lo stile dei "rude boys"… 
«In Inghilterra musica e moda sono inseparabili. Lo stile non era importante solo per i Clash: lo era per tutti. Guarda i gruppi degli anni ’60! Oggi non è così importante ma allora era tutto quello che avevamo.
In copertina della raccolta "Black Market" c’è una foto tua che da solo affronti un intero squadrone di polizia. Come andò la faccenda?
«Quella storia è una bugia. Una completa bugia. C’è qualcosa che la macchina fotografica non mostra. Non si vede che dietro di me c’è una folla inferocita di gente nera con mattoni e bottiglie. E che sta per tirarli. A quel punto mi rendo conto che mi trovavo proprio in mezzo e mi dico: "Beh, sarà meglio che mi tolga di qui". Non sono un idiota!».
Quando i Clash arrivarono per la prima volta in Italia vennero celebrati dai fascisti per la canzone "White Riot" (Rivolta bianca).
«Questo perché i fascisti sono degli idioti. Ma purtroppo un po’ di confusione a riguardo c’è stata anche in Inghilterra e questo è stato uno dei motivi per cui i Clash hanno partecipato a Rock Against Racism, per spiegare bene alla gente che loro si auguravano che anche i bianchi si ribellassero come avevano fatto i neri a Notting Hill nel ’58 e a Brixton nell’81. C’erano anche loro a Brixton e il pezzo si riferiva a questo, non certo a una rivolta razzista! Purtroppo ieri come oggi abbiamo un sacco di fottuti idioti qui in Inghilterra: altrimenti come avrebbe potuto esserci la Brexit?».
I Clash erano un gruppo politico.
«Sì, ma non in senso stretto: usavano la musica per parlare di cose che non ritenevano giuste ma non pretendevano di avere la soluzione per risolvere tutti i problemi».
Cosa direbbe Joe Strummer di quello che sta succedendo oggi?
«Si vergognerebbe, così come accade a molti di noi. Una minoranza di persone che cerca ancora di usare il cervello. La maggior parte cerca solo di scappare dai problemi ma prima o poi la realtà arriva».
Siamo in un museo a celebrare il punk. Non è esattamente tutto quello contro cui si batteva?
«Non amo celebrazioni e anniversari. Però in questo caso credo sia molto importante raccontare ai più giovani che cosa è stato il punk: se ti guardi intorno capisci che è necessario. Non è una questione di nostalgia, è che abbiamo bisogno di altre persone come Joe Strummer. Il punk ha contribuito a cambiare in meglio la società parlando in maniera diretta ai giovani che hanno acquistato coscienza. A potenziali razzisti che sono diventati antirazzisti. Oggi sembra che tutto ciò non sia mai esistito. E quindi se un anniversario è l’occasione per raccontare questa storia a chi non la conosce, evviva l’anniversario. Potere al punk!».