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Elena Ferrante è così: prendere o lasciare. I patti sono gli stessi, da sempre: mandi le domande scritte all’editore e/o, che poi ti gira le risposte. Questa volta il tema era quasi obbligato, essendo appena uscito il suo nuovo romanzo, La vita bugiarda degli adulti, che nella struttura narrativa, nel tessuto stilistico e nelle tematiche sembra slittare direttamente dall’epopea de L’amica geniale. E dove l’io scrivente appartiene a Giovanna, un’adolescente alle prese con le menzogne di famiglia. Naturalmente con l’autrice non è prevista interlocuzione, e le eventuali repliche si perdono nel mare dei pensieri inespressi. Ma va bene così. Leggendone le risposte si percepiscono sentimenti contrastanti, supponenza e umiltà, irritazione e sincerità, cipiglio da sacerdotessa delle lettere e onestà del buon artigiano che spiega meticolosamente il suo lavoro. Qualcosa che non è molto diverso dall’ambivalenza dei suoi straordinari personaggi femminili, sempre capaci di sfiorare verità che fanno male. Basta questo per mettersi in ascolto, senza ribattere.
Il romanzo si presta a diverse letture. Una riguarda il disvelamento delle falsità e delle ipocrisie del ceto colto di sinistra. Il padre della protagonista, Andrea, è il personaggio tipico di quella classe intellettuale. È un professore di storia e filosofia molto stimato negli ambienti illuminati di Napoli, ma man mano che il racconto di Giovanna va avanti ne scopriamo ipocrisie, tradimenti, l’attaccamento al denaro, anche la grettezza nel tenersi stretto il suo metro quadro di eredità rispetto ai fratelli più bisognosi, soprattutto la tenace volontà di cancellare la sua origine sociale nelle classi subalterne. «Corpi carichi di sapere», lei scrive, «si rivelano animali tra i più inaffidabili». Pur non sapendo nulla di lei, Elena, immagino che faccia parte di quel ceto colto progressista. Che cosa ci ha voluto dire con la demolizione di Andrea e del suo mondo bugiardo? È il bilancio amaro di una generazione che ha pontificato per decenni su "politica", "valori", "marxismo", "crisi", "Stato" — parole che ricorrono in Andrea e nei suoi amici — per poi lasciare alle leve successive un mondo ancora più diseguale?
«In verità mi interessava la figlia, più che il padre. Volevo raccontare il disfarsi di un’educazione laicissima, qualitativamente alta, in una ragazzina molto sensibile. Malgrado il disvelamento, i genitori di Giovanna seguitano a celebrare i loro riti, a tenersi stretta la loro identità culturale. Si allarmano solo perché la figlia minaccia di sciupare il patrimonio immateriale che le hanno trasmesso e che vogliono seguitare a trasmetterle. È Giovanna quindi, nelle mie intenzioni, a riassumere in sé il disgregarsi di un mondo. Ma un romanzo va dove lo sospingono lettrici e lettori. Nella mia esperienza, è nient’altro che una storia poco chiara che a un certo punto decido di raccontare per chiarirla innanzitutto a me stessa».
Di contro a questa élite moralmente fragile ma di gran bell’aspetto si staglia una Napoli terribile nelle sue basse pulsioni, incarnata dalla bruttezza animalesca di zia Vittoria. Ed è in questi bassifondi della zona industriale che Giovanna trae energia vitale per crescere, diventare matura e guardare al "mondo grande e terribile" senza più veli.
Naturalmente è una contrapposizione piena di sfumature — il bene e il male coesistono in tutti i personaggi, nel mondo di sopra e nel mondo di sotto, volgarità e finezza sfumano l’una nell’altra — ma le domando se sia lecito leggere in questa contrapposizione — già presente in suoi precedenti romanzi — l’eco del conflitto tra popolo ed élite che segna questo passaggio storico, in Italia e fuori.
«Tutto nel libro è ricondotto allo sguardo di Giovanna, prigioniero di quello dei suoi genitori. Sono davvero belli? Sono davvero così raffinati? E la zia è davvero così brutta? E lei sta davvero diventando come la zia? Che popolo è questo, che élite? In Giovanna, pressata dalla perdita delle certezze, nella mia intenzione si doveva sbriciolare sia l’idea di classe colta che si autoassegna tanto superbamente quanto arbitrariamente il compito di presentire, comprendere, guidare; sia l’idea di un popolo, di una classe, di un soggetto intrinsecamente buono e in attesa di ricevere idee, programmi, organizzazione, guida. Giovanna si sporge sul vuoto, non dà più nessun credito a chi prescrive il modo giusto di vivere, pensare, leggere, scrivere. È sedotta solo dall’imprevisto, che spazza via ogni costruzione in pochi secondi».
Giovanna è espressione di quella generazione che, nata alla fine degli anni Settanta, ha vissuto la sua adolescenza nei Novanta, epoca segnata dalla fine della storia e dall’esaurimento delle narrazioni tradizionali. Ed è la stagione nella quale dilaga il relativismo del cosiddetto postmoderno. Ma il personaggio mi sembra estraneo a quella temperie, coltivando dentro di sé un’ambizione di conoscenza del reale che la catapulta indietro nel tempo. Parla e pensa come una coetanea dei baby boomers, non come una loro figlia.
«È vero, almeno parzialmente. Perché l’ho fatto? Per incapacità? Per insufficienza immaginativa? Perché non ho letto Lyotard o altri? Perché non ho mai avuto a che fare con ragazzine degli anni Novanta? Non lo so, in genere tendo a non escludere niente. Ovviamente ho abbastanza chiaro cosa avevo in mente di fare, ma per spiegarmi sono costretta a dire, qui, che il libro è nato come parte di un progetto ben più ampio, tra l’altro con un suo titolo generale poco seducente ma che amo molto: Lo stato vedovile. Esiste un abbozzo molto grezzo, sterminato, che accompagna Giovanna, insieme ai personaggi più importanti, fino al giorno del suo quarantesimo compleanno. Glielo dico per chiarire che la crisi della ragazza è pensata all’origine su un arco di tempo lungo, dove ciò che interessa è come Giovanna, le cui parole e i cui pensieri sono felicemente quelli dei suoi genitori fin dalla prima infanzia, diventa una giovane donna in permanente adesione e conflitto con la sua formazione di base. Il tempo è, in lei, soprattutto uno sgretolarsi, compattarsi, tornare a sgretolarsi. Non bisogna credere che, mentre viviamo, tutto sia già impacchettato e in modo esaustivo: qui finiscono gli Ottanta, lì cominciano i Novanta, poi il 2000. Mi allarmo quando mi imbatto in prescrizioni come: all’epoca si faceva questo e non quest’altro, oggi non ci si comporta più a questo modo, il relativismo postmoderno, la realtà con le virgolette, le grandi narrazioni, etc. È un rischio per la letteratura e per qualsiasi attività creativa muovere dall’idea che esistono caselle bell’e pronte da cui si estrae ciò che è coerente con qualche canone più o meno trionfante. Tendo a credere piuttosto che il mondo sia stato e sia ben più disordinato di come diligentemente lo cataloghiamo. Perciò, quando comincia la sua crisi, Giovanna non è, ai miei occhi, un’adolescente secondo le etichette sociologiche o filosofiche attribuite a posteriori al 1991 o al 1994. Lei smania, si torce,soprattutto in quanto ragazzina allevata dalla piccola borghesia colta, progressista, degli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta. Il suo tempo è quel torcersi: direi addirittura che Giovanna non sa nemmeno in quali anni vive, se non dentro termini come "festa di capodanno", "festa di compleanno". Ogni suo pensiero o sentimento o valore viene dalla sua famiglia, e quando fa i conti col mondo, è dall’interno delle gerarchie secondo cui è stata allevata che muove, per poi confondersi con altro, un caotico altro, e miscelarsi. Il tempo storico, nel mio progetto, doveva precisarsi lentamente, in sordina, senza didascalie e sempre in urto o alleanza con la formazione di base, nella confusione del vivere, dall’interno delle vicende raccontate. Volevo accompagnare Giovanna fino a oggi, tenendola in bilico sul vuoto che le si era spalancato sotto, ma la bozza preparatoria mi ha scoraggiata. Alla fine ho escluso di avere le energie per portare a compimento una storia ben più lunga dell’Amica geniale. La vita bugiarda degli adulti mi è sembrata autosufficiente e, se non lo è, be’, deve rassegnarsi a bastare a se stessa».
Andrea vive nel terrore di essere scaraventato giù dalle vette faticosamente raggiunte della scala sociale. Nei suoi romanzi precedenti è molto presente il tema del riscatto sociale e anche la paura che questo riscatto non sia mai completamente compiuto. Quando Andrea litiga con Mariano rispolvera il suo dialetto nella volgarità più triviale. Perché questa insistenza sul tema? Come se lei coltivasse una visione disperata sulla immutabilità dei rapporti sociali. Come se ciascuno di noi non potesse mai veramente liberarsi della propria condizione originaria.
«Sì, aderisco all’opinione che l’origine di classe non si cancelli, ma non lo dico con una tonalità disperata, anzi mi pare un bene. L’origine di classe è la testimonianza permanente, inscritta nel corpo, che le disuguaglianze esistono e durano, anche quando a noi singoli capita di essere cooptati ai piani superiori, anche quando impariamo a travestirci con intelligenza e buon gusto. Il problema è che non ci si salva mai davvero da soli, né per meriti, né per grazia. Andrea lo sa, si porta dentro il basso e l’alto e, pur dedicandosi studiosamente a idee di radicale mutamento economico e sociale, vuole salire ancora più su, teme per sé e per la figlia il ritorno all’origine, il regresso e il precipizio, desidera che Giovanna salga di grado come e più di lui. Non è insomma un personaggio lineare. Ci portiamo dentro contemporaneamente il vangelo, il feudalesimo, la rivoluzione francese, il bonapartismo, i proletari di tutto il mondo che si uniscono sapendo di avere da perdere soltanto le loro catene, il fascismo, lo stalinismo e, insieme, un desiderio incoercibile di supremazia e benessere per noi e i nostri figli, a qualsiasi schieramento aderiamo, qui e ora, a ogni costo».
Ho fatto riferimento al dialetto ma in realtà esso è più evocato che espressamente praticato. Una volta ha scritto che da ragazzina il dialetto napoletano la impauriva. Continua a farle paura?
Continua a gravare come una minaccia sulla lingua?
«Il dialetto è meraviglioso, ma nella mia esperienza ha a che fare con la degradazione e la violenza. Esiste naturalmente un dialetto dei buoni sentimenti, ma al mio orecchio suona finto, specialmente quando è dolciastro, bonariamente italianizzato. Preferisco citarlo soltanto, farne una cadenza che promette scompiglio».
Torna in questo romanzo l’amicizia femminile, a cui lei ha dato nella "Quadrilogia" una dignità letteraria che non aveva mai avuto prima. Ne "La vita bugiarda degli adulti" trionfa in tutte le sue sfumature, non solo nel rapporto tra l’adolescente Giovanna e le altre figure femminili, ma anche nella relazione tra Costanza e Nella, divise dallo stesso uomo, e nel rapporto tra Vittoria e Margherita che invece sulla memoria dello stesso uomo che si è reso defunto creano una complicità fortissima. Il filo rosso è sempre l’ambivalenza tra adesione e distanza, tra identificazione e alterità, tra sentimenti nobili e pulsioni ignobili, tra complessi di superiorità e inferiorità, come se le relazioni al femminile non ammettessero colori sentimentali tenui ma solo chiaroscuri violenti.
«Non c’è dignità letteraria senza una strategia di scrittura che tenda alla rappresentazione dell’incoerenza. Nessuno dei nostri sentimenti è univoco, ma per sopravvivere tendiamo a cacciare in margine ciò che ci pare superfluo o disturbante. La letteratura ha il dovere di non farlo, a meno che non scelga di essere edificante. Ma se va per quella via, nuoce a se stessa e persino a ciò che vuole contribuire a costruire. L’amicizia tra donne è ben più complicata della regolamentatissima amicizia tra uomini. Il chiaroscuro, per ora, mi pare d’obbligo».
Resta che sono le donne a muovere il racconto e quindi anche la vita, se l’affermazione non appare enfatica. I maschi seppure contesi (Andrea e Roberto), seppure carichi di sapere e cultura, sembrano figure condannate all’irrilevanza.
«Finché ce li contenderemo, non saranno mai davvero irrilevanti. E forse non è nemmeno un bene che lo diventino. Però devono guadagnarsi una diversa rilevanza, e perché ciò accada il primo passo è smettere di contenderceli e guadagnare noi rilevanza prescindendo assolutamente dalla loro».
Lei dà molta importanza agli incipit dei romanzi. In questo caso fa dire alla sua voce narrante: «Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Lei una volta si domandò, a proposito di un’affermazione simile attribuita da Flaubert a Madame Bovary su sua figlia Berthe, se davvero una madre potesse essere capace di formulare una considerazione del genere. Voleva sperimentarne l’efficacia in una sua pagina narrativa. In questo suo incipit è come se fornisse una risposta: solo un uomo può dire una cosa del genere di sua figlia...
«No, mi dispiace ma non ho ancora trovato una risposta che mi convinca, tant’è che la madre non si oppone al vaticinio del padre, anzi a tratti pare condividerlo. Su ciò che possiamo fare noi donne di magnifico o terribile, sono ancora in mezzo al
guado».
Anche in questo libro si ripete la forma narrativa dei romanzi precedenti. Il lettore si trova davanti a un racconto scritto in prima persona dalla protagonista. Una voce scrivente più che narrante. Giovanna si sofferma spesso sull’atto dello scrivere e sull’atto dell’inventare che talvolta coincidono. Dice: «Perfezionai il mio modo di mentire dicendo la verità». È anche questo un modo per rappresentare la necessità di quella grande menzogna che è la letteratura? Solo l’invenzione e quindi la letteratura può dire il vero e dunque metterti al riparo dalle falsificazioni a cui ti espone la vita?
«La terza persona mi sembra un artificio di scarsa utilità, ormai, specie quando si avverte subito che è un travestimento rozzo dell’autobiografismo. Preferisco l’io, ma costruendone rigo dietro rigo la assoluta inaffidabilità. O, come in questo testo, suggerendo qua e là l’ipotesi che l’io che scrive non coincide necessariamente con l’io di cui stiamo leggendo. Lui, lei, io sono parte di una finzione strategicamente articolata per ottenere effetti di verità. Quando la strategia funziona, il risultato è una menzogna la cui verità ci aiuta a muoverci nella ressa caotica del reale».
Lei in varie occasioni ha dichiarato il suo debito verso Elsa Morante (richiamata anche nel nome che ha scelto). Ne "La vita bugiarda degli adulti" a me pare di intravvedere un omaggio a "Menzogna e sortilegio": anche lì la protagonista che narra in prima persona ha assorbito l’attitudine menzognera della famiglia. E la menzogna è il modo più diretto per dire la verità in tutta la sua asprezza.
«Non mescoliamo la lana con la seta: Menzogna e sortilegio è un libro inarrivabile col quale si può solo devotamente contrarre qualche debito».
Nel suo romanzo non mancano scene di sesso anche brutali. Non è la prima volta. Lei in passato ha spiegato che le piace rompere la corazza delle buone maniere dei suoi personaggi rivelandone un’anima più sguaiata. Le posso chiedere qual è il suo modo di lavorare su quelle scene?
«Quando racconto momenti di grande trasporto affettivo, provo a suggerire il piacere senza ricorrere a dettagli fisici. Per il resto scrivo e riscrivo finché il sesso smette di essere brutale — odio il sesso brutale — e diventa o tragico o ridicolo o tutt’e due le cose insieme».
Il motore del suo racconto è una faccia che cambia. I turbamenti della protagonista cominciano quando sente il padre dire alla madre: Giovanna ha fatto la faccia di Vittoria. E le trasformazioni del viso di Giovanna punteggiano il racconto, insieme a molte altre facce esplorate nel rapporto con preoccupazione e felicità. Non è singolare la centralità della faccia nel racconto di un’autrice senza volto, che la propria faccia si ostina a cancellarla?
«No, non mi pare. Per raccontare quanto pesa il volto nel corso dell’adolescenza, lei ritiene necessario andare in giro per sale, salette e televisioni?».
Il romanzo ripropone molti temi affrontati soprattutto nella "Quadrilogia": come se avesse avuto timore nell’allontanarsi da quella narrazione che le ha assicurato una fortuna mondiale.
Immagino però la sua obiezione: i libri slittano gli uni dagli altri senza che l’autore ne sia consapevole.
«In ogni libro che pubblico mi sembra di aver fatto qualcosa di diverso, altrimenti non lo pubblicherei. Naturalmente dall’Amore molesto in poi il mondo che mi è toccato in sorte, come narratrice, si è andato sempre più definendo ed è inutile aspettarsi irruzioni di meteoriti giganti o le avventure dell’amante del principe Eugenio durante l’assedio di Vienna. Non dico che non mi piacerebbe raccontare storie del genere, ma ho i miei limiti e ho imparato ad accettarli. Questo libro, sì, lo sento nuovo in rapporto ai precedenti. Ma il nuovo, per me, oggi è una parete che frana, un vetro infranto, una porta che sbatte».
I suoi libri sono attesi con la febbre che ha caratterizzato in questi ultimi anni i bestseller globali. Sente il peso di una platea così vasta? L’attesa le crea ansia?
«Un po’ di ansia sì, ma non al punto di spingermi a dire: adesso cosa mi invento? Scrivo ciò che mi va di scrivere e pubblico ciò che mi va di pubblicare».
Se dovesse scrivere l’autobiografia in dieci righe, saltando naturalmente i titoli dei libri?
«Dieci righe sono troppe, non ho da dire granché, meglio di no».