L’anno leonardesco sta terminando con buoni risultati, ma restano dubbi e difficoltà di interpretazione. Per non parlare delle attribuzioni “fake” che si susseguono: dall’improbabile ritratto di Machiavelli, spuntato al castello di Valençay, nella Loira, al volto e alla mano del maestro che “appaiono” anche su terracotte quattrocentesche.
Leonardo da Vinci è un caso più unico che raro di un personaggio celeberrimo da un lato e pressoché sconosciuto dall’altro, specie andando a vedere più da vicino le opere famose o a studiare le misteriose vicende della sua vita. Mai come nel caso di Leonardo il timore reverenziale impedisce di conoscerle e comprenderle sul serio. La ricerca attuale non ha intaccato le conclusioni tratte trentacinque anni fa da Benigni e Troisi nell’immortale capolavoro Non ci resta che piangere . Nel film i due confidano nella conclamata capacità scientifica e tecnologica di Leonardo che incontrano essendo retrocessi nel Cinquecento, ma ben presto constatano come il presunto genio sia un uomo dotato di curiosità divorante e affascinante comunicativa, ma scarso di effettivo comprendonio e forse incapace di inventare alcunché.
Benigni e Troisi, figli degli anni Cinquanta, a scuola hanno conosciuto l’immagine di Leonardo creata in era fascista quando, proclamandosi la supremazia italiana nella scienza e soprattutto nella attitudine all’invenzione culminata in Guglielmo Marconi, si volle costruire una genealogia che dimostrasse come il principio stesso della genialità creativa fosse italiano e nato proprio con il da Vinci inventore di macchine, scopritore dei principi della scienza e della tecnica moderna, genio universale a beneficio dell’umanità.
Il 9 maggio 1939 si inaugurava a Milano La mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane. Lo scoppio della guerra rovinò il successo pieno di quel progetto, ma il seme, latente invero da secoli, era stato piantato. Quarantacinque anni dopo, Benigni e Troisi ironizzavano con garbo estremo su un coacervo di luoghi comuni e acute deduzioni che cercavano di portare all’attenzione di un nuovo mondo della cultura, alla metà degli anni Ottanta del Novecento, carico di grandi speranze poi in parte deluse. Quella revisione, divertita e divertente, disincantata ma filologicamente attenta alla verifica delle fonti, ancora tarda a venire per correggere fraintendimenti che impediscono di superare le barriere retoriche a suo tempo erette forse anche con qualche ragione, ma ormai non più utilizzabili in una esegesi realmente scientifica della figura di Leonardo.
È chiaro, infatti, che studiando gli innumerevoli disegni di Leonardo (specie quelli di Windsor e del Codice Atlantico dell’Ambrosiana di Milano), le sue stesse opere artistiche (pittoriche perché su quelle scultoree andrei coi piedi di piombo), ripercorrendo i probabili esperimenti scientifici e gli allestimenti di feste e teatrali da lui curati, risulta lampante come Leonardo sia stato un prodigioso allievo e un debole maestro. Al punto che, a differenza di tanti suoi colleghi coetanei, pur avendo vergato migliaia e migliaia di pagine non ha mai pubblicato nulla in vita sua, quando avrebbe avuto ogni occasione per farlo.
Ma, in realtà, Leonardo forse non è mai stato né discepolo né maestro nel senso tecnico delle parole. Pare non abbia mai studiato nella sua infanzia e prima giovinezza, mentre da grande ha attinto da Luca Pacioli e altri sommi matematici e da Francesco di Giorgio Martini e altri sommi architetti, senza aver mai imparato bene né la matematica né l’architettura. Era però un formidabile disegnatore tecnico.
Alcuni documenti d’archivio che lo riguardano e spesso presi per buoni, sono più probabilmente falsi o molto dubbi come la lettera che Leonardo avrebbe scritto a Ludovico il Moro a Milano per elencare le sue molteplici competenze, tra cui l’idraulica e l’ingegneria militare e civile.
Delle sue opere pittoriche che oggi giudichiamo certe, nessuna è firmata o datata, Gioconda compresa. L’Ultima Cena è un capolavoro strepitoso (e così lo percepirono gli antichi), ma largamente ricostruito da secoli di restauri, mentre l’unica attestazione di un testimone oculare del tempo, Matteo Bandello che vide Leonardo al lavoro, è assai controversa.
Peraltro i dipinti ritenuti certi sono talmente dissimili tra loro come stile che ci si chiede quale sia dunque il vero stile di Leonardo. Lo prova la dura disputa sul Salvator Mundi, peraltro sparito. Capolavoro certissimo (e milionario) o supersola?
Assomiglia, anche per la tecnica, al Cristo dell’ Ultima Cena, come sostiene Pietro C. Marani, ma come potremmo accostarlo alla Gioconda o alla Vergine delle Rocce? La Vergine delle Rocce poi esiste in due versioni, al Louvre e alla National Gallery. Le ha realizzate tutte e due Leonardo? Per lo stile non si assomigliano. E del resto, che Leonardo abbia fatto due Vergini delle Rocce lo attesterebbero documenti antichi. Ma sono imprecisi e opinabili, inoltre in uno si dice che Leonardo ebbe l’incarico con i due fratelli De Predis, valenti pittori. E allora?
Il sacro disegno dell’ Uomo Vitruviano è andato alla mostra di Parigi. Ma lo sapevate che era sconosciuto ai coetanei di Leonardo ed è stato scoperto solo nell’Ottocento dal più grande esperto del maestro, Giuseppe Bossi, pittore e incisore eccellente? Per altro lo stesso che trovò pure l’ Autoritratto oggi della Biblioteca Reale di Torino.
I fogli di Leonardo hanno peregrinato per secoli, prima apprezzati solo da pochi conoscitori, poi diventati un mito. Leonardo ne lasciò un numero enorme a un suo allievo prediletto, il ricco, nobile, pittore e cultore d’arte, Francesco Melzi. Poi sono stati venduti, smembrati e riaccorpati mille volte in codici, fascicoli, raccolte, talvolta manomessi. E falsificati.