la Repubblica, 30 novembre 2019
Che cos’è un partito?
Che cos’è un partito? E a chi spetta definirlo? Non alla magistratura, ha obiettato Matteo Renzi alla procura di Firenze, che si è permessa d’indagare la sua Fondazione Open per finanziamento illecito ai partiti. Ma certo, spetta alla politica, magari scrivendolo nero su bianco in una legge. Tuttavia la legge sui partiti non c’è, latita da oltre settant’anni. Non l’ha scritta Renzi, durante il suo governo. Né i suoi successori, in altre faccende affaccendati. Sicché, in assenza del potere legislativo, supplisce quello giudiziario.
È l’horror vacui di cui parlò Aristotele: non soltanto la natura, anche le istituzioni rifuggono il vuoto. Se lasci libera la poltrona su cui stavi seduto, qualcun altro vi poserà le chiappe. E d’altronde gli episodi di malaffare punteggiano le cronache, non sarà colpa dei giudici se hanno occhi per vedere. I 49 milioni fatti sparire dalla Lega, come un coniglio nel cilindro. Lo scandalo dei fondi russi. Le inchieste su Arata, Siri, sugli oltre 200 amministratori, sempre della Lega, finiti nei guai con la giustizia. Gli arresti, in Calabria, dei capigruppo regionali di Pd e Fratelli d’Italia, per i loro rapporti con la ‘ndrangheta. Altri esponenti di FdI affiliati alla stessa organizzazione criminale, questa volta in Emilia e in Lombardia. Mentre sullo sfondo, nell’incerta linea di confine tra sostegno lecito e finanziamento illecito ai partiti, opera un esercito di 120 fondazioni. Insomma, l’integrità dell’agire politico dipende dagli strumenti coi quali la politica si procura voti e quattrini.
Dal 2013 abbiamo cancellato il finanziamento pubblico ai partiti: un errore, perché li abbiamo costretti a mendicare risorse dai privati, spesso in cambio d’inconfessabili favori. Dal 1948 attendiamo una legge sui partiti: un altro errore, perché questa lacuna significa che non c’è trasparenza nella loro vita interna, né garanzie democratiche sul processo con cui ciascun partito assume le proprie decisioni.
Ma a questo punto non è che manchi la legge sui partiti, mancano ormai i partiti. Hanno perso l’anima, o almeno l’anima degli italiani. L’unico che ne conserva il nome è il Partito democratico, qualcosa vorrà dire. A ogni elezione locale si camuffano da liste civiche, o meglio ciniche. E soprattutto i giovani non vanno più alle urne per votarli, non ne frequentano le sedi, s’organizzano con Grete e sardine scavalcando ogni partito.
Non che il problema sia solo italiano. La crisi dei partiti riflette il tramonto delle assemblee legislative, che hanno perso autorità e prestigio in tutto il mondo. Il presidente americano, Donald Trump, venne eletto nonostante l’ostilità del suo partito. In Francia Emmanuel Macron, in beata solitudine, ha sbancato tutti i vecchi partiti. Nel Regno unito Boris Johnson ha trasformato il Partito conservatore in uno strumento al suo servizio, negando la candidatura nelle prossime elezioni a chi osi dubitare della Brexit. Come lui Putin in Russia, Xi Jinping in Cina, Modi in India. Quando i Parlamenti abbassano la testa, s’erge soltanto il testone del governo.
Anche il premier italiano, Giuseppe Conte, non ha un partito alle sue spalle. Ma non ce l’avevano neppure le folle convocate in Rete, dalla manifestazione delle donne nel 2011 (un milione di persone in piazza) alle sardine del 2019. Eppure la nostra Costituzione, all’articolo 49, offre un ombrello ai partiti, non ai movimenti. Da qui un dubbio sulla perdurante attualità di questa norma. Perché i partiti ormai non rappresentano «l’ossatura politica del popolo», come diceva Montesquieu. E perché l’energia dei movimenti dovrà pur trovare, prima o poi, uno sbocco istituzionale, una patente di legittimità. Altrimenti l’energia spenta dei partiti spegnerà le stesse istituzioni.