La Stampa, 29 novembre 2019
Leonardo e il dissesto geologico
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Il tocco è morbido, la precisione dei dettagli raggiunge il livello di un disegno tecnico. La mano è quella di Leonardo da Vinci. In primo piano, a inchiostro, è tratteggiata una falesia tormentata da fenditure e slittamenti di rocce; a un lato, uno stretto canyon è attraversato, sul fondo, da un corso d’acqua che riempie un piccolo lago dove nuotano alcune anatre. Il torrente e il laghetto sono bordati da massi e pietre, presumibilmente scivolati giù dalle pareti della gola. «A mezza costa è riconoscibile la superficie di scivolamento di una frana, coronata, in alto, da strati rocciosi deboli; sul fondo ci sono i detriti dello slittamento di una formazione instabile» analizza Claudio Margottini, una carriera da geologo specializzato nella salvaguardia di beni culturali: per anni consulente dell’Unesco, ha messo in sicurezza le pareti e le nicchie dei Buddha di Bamyan, dopo che erano stati distrutti dai talebani, e ha condotto gli studi geologici per la missione che ha riportato l’obelisco di Axum in Etiopia. Margottini sbalordisce: «Dal punto di vista tecnico è un disegno ineccepibile, potrebbe essere stato eseguito da un esperto geologo di oggi. Probabilmente è la prima raffigurazione realistica di una frana».
Il disegno, a penna e inchiostro, è nella raccolta del britannico Royal Collection Trust, esposto nella Queen’s Gallery di Buckingham Palace a Londra (ora in prestito al Louvre di Parigi per la grande mostra leonardesca). S’intitola A ravine, una gola, ed è datato negli anni tra il 1482 e il 1485, quando l’artista-scienziato aveva lasciato Firenze per Milano. Nel catalogo è descritto come soggetto immaginario, derivato però dalla conoscenza di Leonardo dei pinnacoli di argilla e arenaria che caratterizzano la valle dell’Arno, a Sud-Est di Firenze. Il disegno è contemporaneo alla pala d’altare della Vergine delle rocce, in cui Gesù bambino e il piccolo San Giovanni Battista s’incontrano sotto lo sguardo della Madonna e di un angelo in uno scenario mistico di volte pietrose, stalattiti e stalagmiti e picchi azzurri sullo sfondo.
«Definirei piuttosto il disegno come il risultato di un’osservazione diretta e attenta, anche se l’esecuzione può essere successiva» spiega Margottini, che si è imbattuto nello schizzo leonardesco durante le ricerche per l’organizzazione di una conferenza al Cairo, dove è addetto scientifico dell’Ambasciata italiana. «Il paesaggio sembra quello dell’Appenino centrale, ma rintracciare il luogo esatto è molto difficile. È evidente uno strato solido, probabilmente arenaria, su cui poggiano rocce deboli stratificate, non vedo invece traccia di argille. Il dato più importante è che l’occhio acuto di Leonardo si è concentrato sulla cavità e i cumuli di detriti, al centro del disegno, e non sul canyon che è a destra; tanto che il titolo andrebbe cambiato con "La frana". Il problema idrogeologico era già presente nella Penisola anche se meno grave di oggi, perché incideva su un territorio molto meno urbanizzato». Il disegno di Londra non è un caso isolato nella biografia e nelle opere del pittore della Monna Lisa.
Il senso di Leonardo per le rocce comincia in giovane età, forse durante una gita da ragazzo nell’Aretino in cui passa per il Ponte a Buriano (la cui raffigurazione è ipotizzata nella Gioconda). Intorno, c’è un paesaggio di spettacolari calanchi, «le balze» del Valdarno superiore. I calanchi e le rocce erose diventeranno una sorta di leggera, strisciante ossessione. «I dipinti di Leonardo andrebbero letti in maniera congiunta: da geologi, fisici, biologi, ingegneri insieme agli storici dell’arte».
Calanchi e guglie affilate fanno le loro prime apparizioni, intravisti dietro giardini e bifore nell’Annunciazione e nella Madonna del garofano. Alle spalle della Gioconda, i tornanti di una strada s’infilano in una gola rocciosa. Uno sfondo lunare di calanchi e crateri si staglia sul fondo di Sant’Anna con la Vergine e Gesù bambino. Nei disegni Leonardo va più in là: seziona strati di pareti, focalizza su crepe, con la stessa cura degli studi di anatomia. «Siccome l’omo è composto di terra, acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il simigliante» scrive nei suoi appunti (manoscritto A 55, all’Institut de France). «In un disegno, negli ultimi anni della sua vita, Leonardo ritrae un crollo su una parete rocciosa in un paesaggio di montagna che questa volta somiglia a quello alpino» aggiunge Margottini. «Il collasso, nella meccanica delle rocce, era una lezione per uno studioso come lui». Oggi si sarebbe interessato alla cementificazione dei bacini idrici, che fanno esondare i fiumi italiani, come il suo amato Arno.
Il paesaggio italiano è cambiato, ma una certa propensione al disastro pare eterna. «Nel 1499 Leonardo era in una commissione per indagare sul crollo del campanile di San Miniato e del convento di San Salvatore causato da un movimento della collina del Monte alle Croci. Insieme a lui c’erano Giuliano da Sangallo e Jacopo del Pollaiolo, tra gli altri. Il parere di Leonardo è da geologo consumato: imputa i crolli alle cave di argilla scavate nella collina e allo spargimento selvaggio delle acque causato dalla cattiva manutenzione delle fogne, come ha scritto il mio collega Nicola Casagli». La raccomandazione conclusiva di Leonardo nella sua relazione è semplice ed efficace: «Tener nete le fogne». Un secolo prima che il termine geologia fosse coniato, Leonardo aveva studiato e capito molto. Non solo della dinamica dei terreni, ma anche del carattere dei suoi compatrioti.