il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2019
Alle origini del declino di Alitalia
Alitalia è una metafora del Paese, per molti decenni il suo biglietto da visita, prestigiosa e ammirata nel mondo quando anche il Paese godeva di prestigio e ammirazione. Fondata nel dopoguerra con capitali pubblici, ha il compito di garantire i collegamenti internazionali dell’Italia. Il suo primo quarto di secolo è foriero di crescenti successi e bilanci sempre in utile grazie all’elevata capacità tecnica, la riconosciuta qualità del servizio, la capacità di accrescere l’offerta e rinnovare la flotta che la porterà a essere il primo vettore con soli aerei a reazione. A fine anni ’60, all’apice del successo, Alitalia è il settimo vettore mondiale e il terzo europeo davanti a Lufthansa e Klm.
Questo scenario cambia radicalmente con le crisi petrolifere degli anni ‘70 che fanno impennare costi e prezzi dei voli, riducendo drasticamente i tassi di crescita del mercato. Alitalia supera questa fase e recupera bilanci in equilibrio anche se non troverà mai più i successi della prima fase. Negli anni ‘90 per una concomitanza di fattori avviene la virata in negativo. L’Ue liberalizza il mercato comunitario, creando le basi per una crescita della concorrenza grazie ai low cost. Le compagnie tradizionali virano sul lungo raggio, non aperto alla concorrenza, e i governi che li posseggono avviano processi di quotazione per reperire gli ingenti capitali necessari. Alitalia cerca di farlo diversamente, aggregandosi con Klm. I due vettori sono perfettamente complementari: Klm, priva del segmento nazionale, è fortissima nel lungo raggio; l’esatto opposto di Alitalia. Ma l’aggregazione, che sarebbe stata la miglior decisione nella storia di Alitalia, fallisce per le resistenze italiane, politiche e sindacali. Senza Klm anche Malpensa 2000 diviene un progetto fallimentare, un aeroporto hub costruito per un vettore del tutto carente nella flotta di lungo raggio e che dovrà dividere in maniera costosa la sua capacità su due mezzi hub incoerenti. Questi sono i primi errori industriali gravi di Alitalia. Il terzo è l’ingresso nel 2001 nell’alleanza mondiale Skyteam, promossa da Delta e Air France-Klm, che gli costa una sconsiderata riduzione di circa il 30% della sua capacità di lungo raggio. Avviene mentre le maggiori compagnie fanno l’esatto contrario e dopo aver inaugurato il secondo hub a Malpensa.
Intanto, mentre Alitalia ridimensiona il lungo raggio, i low cost entrano in massa nel medio-breve raggio: trovano facile accoglienza e condizioni favorevoli, se non vere e proprie sovvenzioni nel gran numero di aeroporti minori, privatizzati, che le ospitano. Nel frattempo viene anche chiusa l’Iri, promotore e controllore storico di Alitalia, e la proprietà passa direttamente al Tesoro che non ha alcuna competenza industriale utile. Decollano pertanto le perdite e il governo Prodi avvia a fine 2006 la privatizzazione, ma all’inizio del 2008 la strana alleanza tra sindacati e centrodestra fa fallire la generosa offerta d’acquisto di Air France e genera in vitro i Capitani coraggiosi, i quali attuano lo sconsiderato piano Fenice, il primo di tanti basato sulla contrazione espansiva, secondo cui mandando a casa il personale (6 mila dipendenti ma quasi 9 mila includendo i precari) e tagliando (del 40%) la flotta, si attuerà una miracolosa crescita in stile ‘pani e pesci’ del traffico e dei ricavi.
Per non farsi mancare nulla i Capitani trovano il coraggio di tagliare ulteriormente il lungo raggio, concentrandosi sui voli domestici proprio alla vigilia del completamento dell’alta velocità ferroviaria. Dopo il decollo dei Capitani la flotta di lungo raggio sarà la metà esatta di quella lasciata dall’Iri. Alla vigilia di Natale del 2012 il dimissionario governo Monti sottoscrive uno sconsiderato contratto di programma che permette di finanziare lo sviluppo futuro dell’aeroporto di Fiumicino attraverso aumenti tariffari stellari a carico dei suoi utilizzatori correnti, di cui il principale – che pesa per oltre il 40% del traffico – si chiama Alitalia. Esso dovrà far fronte ai nuovi livelli tariffari con proventi declinanti per effetto della crescente concorrenza low cost.
Nel 2014, con Alitalia in una nuova prevedibile crisi e disavanzi fuori controllo, arrivano gli Emiri coraggiosi di Etihad con un dichiarato piano di rilancio di lungo raggio che però non realizzano, limitandosi al ridimensionamento del breve. Pertanto Alitalia si riduce ancora assieme al suo personale. E ogni volta che avviene, regala passeggeri di breve raggio ai low cost e di lungo raggio ai grandi hub europei. Rapidamente travolti a loro volta dalle perdite, Etihad presenta nei primi mesi del 2017 un nuovo piano di contrazione espansiva, lacrime e sangue per i lavoratori che i medesimi, non essendo masochisti, respingono in massa nel referendum. Il 2 maggio gli azionisti privati si arrendono e nazionalizzano Alitalia, consegnandone le chiavi al governo e chiedendo l’amministrazione straordinaria, non prima di aver designato in continuità quelli che dovranno esserne i commissari straordinari.
Il governo coraggioso presta 900 milioni, più di tutti quelli sborsati complessivamente dai Capitani del 2008 e dagli Emiri del 2014, ma senza chiedere ai commissari di ristrutturare l’azienda e riportarla alla competitività. Dovranno limitarsi a venderla entro pochi mesi, un obiettivo che non conseguono in oltre due anni e mezzo. Nel 2017 Alitalia poteva solo essere risanata o chiusa, non certo venduta, in quanto nessun attore di mercato mette la sua liquidità in un secchio di cui non son stati chiusi i buchi. Risanarla sarebbe stato meno costoso che chiuderla ma non è stata fatta nessuna delle due cose, adottando in questo modo la soluzione più costosa delle tre. La storia di Alitalia dagli anni ‘90 è un manuale di come non si gestisce una compagnia aerea e non si fa politica industriale, meritevole di essere adottato in tutte le scuole mondiali di management e di politiche pubbliche.