il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2019
Biografia di Daniel Pennac
È difficile spiegare quanto Daniel Pennacchioni, soprattutto tra Ottanta e Novanta, sia stato importante per milioni di lettori. Difficile perché sembra di parlare di ere geologiche lontanissime, quando le edicole erano ancora vive, le librerie non dovevano affrontare una nemesi chiamata Amazon e – addirittura – era ancora lecito credere che la vita ti desse il tempo e il lusso per a) leggere, b) sognare, c) applicare entrambe le cose alla propria quotidianità.
Il suddetto Pennacchioni, che per fortuna nostra e più ancora sua si è fatto chiamare “Pennac” sin da inizio carriera, compirà 75 anni il prossimo primo dicembre. Nato a Casablanca in una famiglia di militari di origini corse e provenzali. Infanzia in Africa, Asia, Europa tutta e poi nello specifico Francia. Dislessico, studente disastroso. Fu salvato a fine liceo da un professore, che ne intuì la propensione alla scrittura – se non proprio il talento – e gli disse: “Tu con me non farai più temi, ma scriverai un romanzo a puntate”. Giusto per capire quanto la scuola possa cambiare a tutti la vita, in meglio o in peggio dipende (da troppi fattori). Insegnante per ventotto anni a partire dal 1970, per attitudine ma forse più ancora per guadagnarsi da vivere (e ritagliarsi tempo da scrivere in estate).
Esordisce con un pamphlet ferocissimo contro l’esercito, da lui ritenuto non meno che un mefitico microcosmo tribale, tanto per rimarcare la fascinazione che gli aveva provocato l’impronta familiare. Scrive due libri di fantascienza con Tudor Eliad, ma non se li compra neanche da solo. Prova allora con la letteratura per bambini e va un po’ meglio: un libro in particolare, Abbaiare stanca, rimane una delle maniere migliori per innamorarsi dei cani e capire come si viva accanto a loro. Nel 1985 scommette con alcuni amici, assai scettici sulla sua capacità di scrivere un giallo, che con quel genere lì avrà successo. Ha ragione lui, perché Il paradiso degli orchi fa il botto. Erano anni – chissà perché – adatti alle saghe, sorta di serie tivù cartacee ante litteram: basta pensare, tra i tanti, al Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán e al Fabio Montale di Jean Claude Izzo. Il paradiso degli orchi apre la saga Malaussène, che regala un successo irripetibile a Pennac. Più volte l’autore ha raccontato di avere attinto non poco da Stefano Benni: si vede e si sente. La stessa ironia buona, la stessa capacità di inventare mondi impossibili e per questo possibilissimi.
Il Pennac della seconda metà degli Ottanta è come condannato a non sbagliare mai: lo attestano La fata carabina e La prosivendola, che completano la trilogia perfetta (nel 1995 uscirà poi Signor Malaussène).
La famiglia multietnica del povero Benjamin Malaussène, professione “capro espiatorio” perché la sua dote migliore è indurre tutti a compatirlo, entra nel cuore di tutti, al punto che un pellegrinaggio a Belleville – il quartiere parigino dove i Malaussène vivono – nei Novanta era obbligatorio o giù di lì. Pennac, pubblicato in Italia da Feltrinelli, diviene gallina dalle uova d’oro e ogni cosa che stampa va a ruba. Compreso un saggio del 1992, Come un romanzo, che contiene il decalogo perfetto per indurre i giovani ad amare la lettura. È ingiusto affermare che Pennac si sia fermato lì, come attestano i romanzi e i saggi – nonché i saltuari ritorni alla saga Malaussène – succedutisi dalla seconda metà dei Novanta fino ad oggi. È però innegabile che il decennio 1985-1995 sia coinciso con la sua epifania più fulgida. Sua e di molti lettori fortunati, che grazie (anche) a Pennac hanno allenato la fantasia e aperto gli occhi all’inverosimile. Nel 1994 Alessandro Baricco era già narciso (giustamente) e non ancora renziano (per fortuna). Conduceva un programma su Rai3, Pickwick, dove aveva il potere di farti innamorare di tutto quello che piaceva a lui.
Lo fece anche con Pennac, e che Dio lo benedica. Il mondo di Benjamin Malaussène era – e resta – un calderone di umanità varia e mai avariata, dove persino gli omicidi hanno un che di gentile. Madri sempre incinte, protagonisti che non invecchiano, sorelle ore infermiere ora fotografe e ora (forse) veggenti. Povere bimbe chiamate “Verdun” in onore di vecchietti reduci dall’omonima battaglia. Cani buffi e pestilenziali. Risate, sorprese, sogni. Una meraviglia perdurante e immortale. Grazie di tutto, Daniel. E tanti auguri.