Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2019
Il conflitto d’interessi di Bloomberg
Mike Bloomberg ha un ostacolo non solo politico sulla strada verso la nomination del partito democratico prima e d’un successivo duello con Donald Trump per la Casa Bianca. Un ostacolo grande quanto il business che ha creato. Quel successo al comando d’un impero con pochi rivali, nei dati finanziari come nell’informazione, che gli ha permesso di accumulare una fortuna personale da 54 miliardi di dollari e adesso foraggia le ambizioni di statista. Buona per l’ingresso nell’élite dei super-ricchi mondiali e per far impallidire il tesoro del presidente ad oggi considerato il più abbiente nella storia americana, Trump con i suoi forse 3 miliardi al netto di iperboli. Ma buona anche per sollevare un inedito nido di conflitti d’interesse, più complesso e fitto della ragnatela che già avvolge l’attuale Casa Bianca, e che se irrisolto minaccia di soffocarlo.
Il problema di Bloomberg – anzitutto in che modo il suo servizio giornalistico seguirà la campagna elettorale – è stato riconosciuto dallo stesso gruppo che porta il suo nome. Parola del direttore della divisione Bloomberg News, l’ex editor in chief di The Economist John Micklethwait: «È inutile affermare che coprire questa campagna presidenziale sarà facile». Micklethwait ha messo nero su bianco nuove linee guida di lavoro prudenziali: i 2.700 giornalisti dell’agenzia di stampa, di riviste quali Bloomberg Businessweek, di televisione e radio, non “indagheranno” sul loro proprietario, né sui rivali democratici alla nomination.
Dai commenti di Bloomberg Opinion spariranno editoriali non firmati, che riflettevano il pensiero del magnate. Verranno invece ancora coperti, per i candidati democratici, notizie quali sondaggi, posizioni politiche, andamento delle campagne. Se prestigiosi organi d’informazione produrranno inchieste su Bloomberg o altri candidati, «non verranno nascoste». E soprattutto nessun silenzio stampa su Trump e la sua amministrazione: Bloomberg continuerà a offrire servizi e indagini approfondite, perché è già in carica.
La parziale presa di distanza, tuttavia, appare al più l’inizio d’un saga; non ha attenuato polemiche e incertezze. Nel 2016, quando Bloomberg considerò una prima volta la candidatura presidenziale, la responsabile dei servizi politici a Washington Kathy Kiely si dimise denunciando l’impossibilità di mantenere credibilità senza un’aggressiva copertura di Bloomberg stesso. Non basta. Le operazioni del gruppo Bloomberg LP vanno ben oltre le news, business autorevole quanto ancillare. I servizi rivolti alle aziende, che ruotano attorno alla vendita di specializzati dati finanziari su terminal, hanno una diffusione capillare negli Stati Uniti e nel mondo, con una presenza in 69 paesi e 19.000 dipendenti. Numerosi esperti sostengono che, a fronte d’un impero sul quale non tramonta mai il sole e d’un esercito di clienti che annovera colossi dell’alta finanza e non solo, null’altro che un esplicito e chiaro divorzio dal gruppo, una vera “muraglia” e probabilmente una cessione, potrà sopire le preoccupazioni. Tanto più se Bloomberg intenderà distanziarsi da Trump, rimasto legato a doppio filo al proprio business tra mille controversie, e rispondere agli attacchi di avversari democratici che lo accusano di voler “comprare” la presidenza.
Difficile sottovalutare l’influenza dell’azienda di cui tiene le redini. Bloomberg, che è Ceo e ha una quota dell’88%, aveva fondato l’originale società nel 1981, fresco dall’uscita da Salomon Brothers, dove aveva progettato sistemi informatici proprietari, con una buonuscita da dieci milioni. Si chiamava Ims, ricevette un investimento di Merrill Lynch, e sviluppò i primi terminali, che debuttarono nel 1984, per la fornitura di dati finanziari e di mercato in tempo reale. Due anni dopo era già decollata con cinquemila terminal installati e cambiato il nome in Bloomberg. Passano dodici anni e l’azienda è valutata 9 miliardi; dal 2008 ha superato i 22 miliardi. I terminals sono oltre 325.000 e le entrate annuali superano i dieci miliardi. L’espansione l’ha anche vista diversificare le attività al di là di terminali che costano 24.000 dollari l’anno, e che tuttora rappresentano tre quarti delle revenues: un quarto del fatturato è legato ad altri servizi, da news a strumenti di ricerca e analisi.
Bloomberg si è finora limitato a promettere una “separazione” sia dall’intero business che dalla sua fondazione e da iniziative sociali, impegnate su temi delicati dal cambiamento climatico alla salute e alle restrizioni sulle armi. Pronunciamenti ritenuti troppo generici per proteggere l’interesse pubblico da quello privato. Richard Painter, ex legale su questioni etiche di George W. Bush, invoca dismissioni, almeno in vista d’una eventuale vittoria alla Casa Bianca: «Deve dire che se diventerà presidente tutti i business verranno ceduti». L’esperienza politica precedente, quando da sindaco di New York gli era bastato affidare la gestione quotidiana dell’impero a un comitato di management, non serve: «Un sindaco non ha poteri di regolamentazione sul settore finanziario».