ItaliaOggi, 27 novembre 2019
Lo sterminio e la tortura di donne in quanto tali, per motivi religiosi o politici, sono stati completamente rimossi, ignorati
Rientri da un viaggio durato ore, perché in Italia spostarsi è sempre una Anabasi, finalmente stendi le gambe e c’è un programma sulle donne uccise dai compagni: tragedia enorme, da comprendere e invece liquidata col cliché: maschio bruto, codice Rocco, uomini assassini, società patriarcale. La Giulia Bongiorno, avvocato in politica: «Ah, le donne in carriera fanno sacrifici, vi par giusto?». Cara Giulia, tutto implica sacrifici, anche i maschi fanno sacrifici, così è la vita, cosa che aveva capito Mick Jagger: «Non puoi avere sempre ciò che vuoi». La società è una coperta sempre troppo corta, i diritti non bastano mai, anche perché, come insegnava Ortega y Gasset, sono spesso il prodotto di pretese dei «bambini viziati della democrazia».E i bambini viziati si trastullano con le cerimonie, le bandiere, ogni giorno una Giornata per additare qualcosa, per incolpare qualcuno di qualcosa, stavolta toccava alla violenza sulle donne: problema terribile, ma seppellito sotto colate di retorica ideologica. Le panchine rosse, le scarpette rosse, la denuncia rossa, il maschio nero cioè fascista, geneticamente criminale, se ne sono sentite di tutti i colori, a catena, ma sempre sulle 50 sfumature di rosso: il patriarcato, il fallocratismo, il maschilismo, il capitalismo, la mafia, le agende rosse, Borsellino, Berlusconi porco con le olgettine che sta dietro le stragi (si è sentito perfino questo, ieri), il climatismo, il filo rosso tra violenze e cambiamenti climatici, Greta e Carola, violenza e migranti, violenza e Salvini, violenza e odio e sardine dell’amore, e siamo tutti colpevoli, ogni maschio è colpevole, di niente e di tutto. Di logico, poco e niente. Il solito rosario di populismo di sinistra per il quale la cattiveria, la violenza sta tutta da una parte: funziona per ogni fenomeno.
In realtà, l’Italia con tutti i suoi ritardi risulta agli ultimi posti in Europa per questa barbarie, i cosiddetti femminicidi, parola odiosa in sé, risultano in lieve calo, c’è di che rallegrarsi? No, ogni sopruso è una sconfitta (e andrebbero contabilizzati anche quelli, a vario titolo, delle donne sugli uomini, per capire che, malgrado le buone intenzioni, restiamo sempre all’homo homini lupus). Ma non è neanche il caso di buttarla in autodafè cialtrone come facevano certi comunicati tromboni di un sindacato di giornalisti: «La violenza sulle donne è colpa nostra, di noi uomini, è figlia di una cultura sbagliata, da cambiare».
Si distingueva la Rai, dove proverbialmente vige un sessismo inossidabile. E ce lo sentivi, il messaggio subliminale: è tutta la società da cambiare, da rendere più egualitaria, più condivisa, più accogliente, più fatta di ponti e non di muri, più fluida, chi vuole capire capisce, e chi non vuole invece pure. Un problema vero, una situazione drammatica autentica, come sempre usata, svilita in una miserabile manfrina militante, così da non risolvere niente, non sapere niente. Il basso continuo della lamentazione, del dito puntato sul maschio geneticamente schifoso, che non cambia la sua indole, che non si adegua ad un nuovo mondo possibile, che non rinnega mai abbastanza il suo dna. I sacrifici di una donna, che «deve scegliere», ossia mediare tra una carriera e le altre ambizioni, materne, domestiche, considerati non come un oggettivo limite umano, che riguarda chiunque, ma come una conferma del potere fallocratico delle società maschiliste.
E lo sterminio e la tortura di donne in quanto tali per motivi religiosi o politici, fuori dall’Europa, completamente rimossi, ignorati. Donne vittime di regimi teocratici o totalitari, costrette a vestire, agire, faticare come uomini, tuttora mutilate, segregate, umiliate: non pervenute. Eppure, tante volte basta affacciarsi alla finestra per constatare come, sotto i nostri occhi, infierisca una immigrazione per niente disponibile ad integrarsi, tenacemente abbarbicata a certe pratiche che considerano le femmine alla stregua di animali domestici, riproduttivi. Ma non conviene farci caso, meglio far rifluire la denuncia nelle dinamiche nostrane, meglio far notare, sempre e comunque, che sono i maschi italiani, questa categoria fetida per costituzione, a sterminare le compagne, specie al sud, che però non ha responsabilità in quanto tradizionalmente sfruttato dal nord predatore, e così ci infiliamo pure la fatidica questione meridionale introdotta da Gramsci e si torna sempre lì, alla società capitalista e sfruttatrice da rigettare in blocco, sostituita da una nuova convivenza comunitaria di stampo neomarxista. A questo servono le Giornate del vittimismo. A sparare a pallettoni di propaganda rozza e mistificante a prescindere dal tema trattato. E a lasciare tutto come sta. Perché una Giornata del vittimismo dura un giorno, poi c’è da fiondarsi sulla successiva.