la Repubblica, 27 novembre 2019
Povero e grandissimo Belli
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Povero Belli: miracolo di nevrosi creativa, prodigio d’energica ipocondria, fulgore contraddittorio, groviglio di altissima poesia. Ma povero davvero, Giuseppe Gioachino, perché solo attraverso le sue confessioni si riesce a comprendere quanto poco lieta fu la sua vita, costantemente dominata da un senso oscuro di minaccia incombente, preda, scrive di se stesso, «del destino e del diavolo».
E non era, come pure poteva sembrare a quei tempi, una posa o un vezzo d’artista svenevole e preromantico. Osservate con lo sguardo del cuore, ansia e infelicità vengono fuori dalle lettere che vanno dalla gioventù al momento in cui, nell’autunno 1837, Belli ebbe tali e tanti guai, e tutti piombatigli addosso nello stesso momento, da disamorarsi fino a ripudiare l’opera colossale e semi-clandestina, quel “monumento alla plebe di Roma” che è poesia assoluta, lirica prosaica e visionaria, ma densa anche di cronaca, politica, teologia, storia sacra, geografia, antropologia; una variegata profondità di spunti popolari e universali da coinvolgere, in uncorpus di 2279 sonetti composti in pochi anni, non solo il bene e il male di vivere, ma anche ciò che dovrebbe seguirne: «E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,/ viè la Morte,/ e ffinissce co l’inferno».
Così, osservato a distanza di due secoli negli affetti come nelle incombenze, sottoposto ad autopsia epistolare nelle sue smanie e fragilità, ecco che “Peppe er tosto”, come si firmava, genio comico e ritmico, giocoliere di parole al livello di Rabelais, Joyce e Gadda, si rivela un’anima in pena: onesto ma pavido, mite e pignolo, permaloso e lamentoso, sempre afflitto da qualche affanno e malanno; un tipo anche brillante, curioso e culturalmente illuminato in una società più che retriva, eppure troppo spesso depresso, però anche tentato da un certo istrionismo, per poi ricadere nella solitudine, tutt’altro che beata, dell’auto-nascondimento.
Troppe diverse persone, si direbbe, in una sola fuggevole e in fondo inafferrabile personalità. Accademico ed erudito vorace e irrequieto, tale da passare le occhiute dogane pontificie con i libri proibiti “sotto cappotto”, e tuttavia scialbo, lezioso, forse anche un po’ ipocrita autore di poesie in lingua italiana (a cui però teneva moltissimo); partecipe idealmente, ma al tempo stesso lungi dall’impegnarsi personalmente nei moti progressisti che a quel tempo agitavano l’Italia e l’Europa, spaventato quando viene a sapere che Mazzini va diffondendo un suo sonetto anti-papalino; cristiano sincero e problematico, ma qualcosa non torna se si pensa che dalla sua penna escono tra le più spaventose blasfemie della storia letteraria mondiale.
Tutt’altro che maledetto, del “Commedione”. Impiegato a lungo nullafacente, come usava ai borghesi benestanti, tiene i conti di casa, ama viaggiare, adora Milano “città benedetta”, ma non esce mai dall’Italia; sposatissimo a una donna più anziana e ricca, Mariuccia, tipico marito che ha appeso il cappello, ma poi finisce per volerle davvero bene, nel frattempo innamorandosi di contessine e attrici di grido, a loro volta destinatarie delle lettere più interessanti e sconcertanti, un po’ da pavone, vai a sapere quanto sincere. Padre ansioso, severo e soffocante, ma pronto a dolersi se il figliolo posteggiato a studiare a Perugia, Ciro, gli si rivolge con il “lei”, agognando dal fanciullo il più famigliare "voi”. Uomo da mille problemi e contraddizioni, letterarie ed esistenziali. Fino al dilemma dei dilemmi, e cioè come sia stato possibile, di punto in bianco o quasi, che da massimo demolitore del potere temporale e supremo sbeffeggiatore del governo dei preti, si sia fatto codino, reazionario, censore pontificio, addirittura destinando l’opera sua magnifica e sotterranea, già lodata da Gogol e Saint–Beuve, nientemeno che “alla fornace” – salvo affidare tale compito a un intelligente monsignore, Vincenzo Tizzani, che si guarderà bene dal farlo.
Poche avventure artistiche sono così ambigue e tortuose come quella belliana. Basterebbe questo a spiegare l’importanza storica e l’impresa editoriale che l’editore Quodlibet si è assunto nel pubblicare l’ Epistolario1814-1837 (1202 pagine, 90 euro), volumone come se ne fanno ormai purtroppo di rado, 597 lettere di cui 150 completamente inedite, 500 i testi riportati dei suoi corrispondenti in un tripudio anche tipografico di varianti, note, fonti, abbreviazioni, parentesi di ogni ordine e grado e perfino note che consentono di approfondire il vissuto di “996” (come pure a un certo punto sigla i sonetti) indicando i pesi, le misure e il valore dei soldi nel primo Ottocento a Roma. L’accurata introduzione è affidata al giovane filologo-detective Davide Pettinicchio che al mare magnum della corrispondenza belliana ha dedicato qualche anno di vita ed energia orientandosi tra lettere originali, pubblicate, non pubblicate, copiate, fotocopiate, rubate, negate, alcune anche recuperandone in giro per l’Italia da archivi, biblioteche, fondi famigliari discendenti del Belli e dei suoi antichi destinatari.
Qualche mistero adesso si chiarisce. Sia l’esplosione in romanesco che il suo spegnersi trovano riscontro biografico, secondo Pettinicchio, in due crisi che appaiono insieme pubbliche e private. Nel primo caso, la scelta della lingua ha l’apparente leggerezza di un divertissement che via via si fa esperimento, scorciatoia comunicativa, espediente che permette a una sensibilità estenuata di contenere il dolore con il riso. E tuttavia, tanto più in una stagione politica velleitaria e parolaia, l’autentica e irrefrenabile eruzione vulcanica che porta Belli a scrivere anche dieci sonetti al giorno, ciò che lo precipita nel pozzo nero della miseria, al fondo dell’ignoranza e della barbarie, dentro la rabbia sociale e la potenza dell’osceno, ecco, altro non è tale calata nel profondo che il frutto di una “crisi di presenza”, malattia dell’animo, categoria interpretativa utilizzata un secolo dopo Ernesto De Martino. Con l’artificio e la torsione della mimesi, Belli recupera a se stesso un rapporto finalmente vero con la parola, la voce, il corpo e la realtà: donde lo sfavillio del capolavoro.
Quanto alla fine del torrente lavico dei sonetti, tutto si compie tragicamente in una manciata di giorni: morte improvvisa della moglie, scoperta del disastro economico domestico, creditori sull’uscio, trasloco umiliante presso parenti ricchi, figlio lontano in tutti i sensi, insomma la catastrofe gli piomba addosso mentre a Roma – di nuovo l’aspetto pubblico – infuria una terribile epidemia di colera che costerà 10 mila morti. E stringe il cuore in quei giorni di sofferenza e di panico leggerlo e rileggerlo alle prese con un certo “medagliere” che dalle Marche l’hanno pregato di piazzare, e lui non sa, non può, è a pezzi, ma teme si possa pensare che se ne sia appropriato... Fra le due crisi, l’una generativa e l’altra terminale, rivive e si consuma nelle lettere la più contorta relazione fra il poeta e quella che ai tempi non solo a lui doveva sembrare un’opera impossibile, ma che recitava apprezzatissimo nei salotti. Perciò dei sonetti parla il meno possibile, per fuggevoli accenni, “sillabe romanesche”, “versi da plebe”, “le mie satiresche follie”; quelle che qualcuno avvicinerà un giorno a Dante e a Shakespeare.
Povero e grandissimo Belli. «Intanto il Tevere corre e correrà sempre – scrive – come se il Signor Giuseppe non fosse mai nato».