la Repubblica, 27 novembre 2019
Il grande ingorgo di Genova
Un tir polacco incastrato nel traffico incastrato nella città incastrata tra la montagna e il mare. Benvenuti a Genova, la capitale dell’auto immobile.
L’Ingorgone Apocalittico è una creatura mitologica che si sveglia all’alba, un mostro di lamiera che ha sempre fame e divora camion, macchine, motociclette, autoarticolati, furgonati, telonati e caravan. Ieri mattina all’ora della colazione c’erano 14 chilometri di tir in fila sull’autostrada A7, l’antica camionabile di Mussolini che da Milano scende al mare senza troppi viadotti: negli Anni Trenta evocati incautamente dal governatore Toti non usava molto, sicché oggi quella strada medievale è aperta e le altre sue sorelle mica tanto.
La storia della colonna infame comincia alle sette e mezza di una stramaledetta mattina, quando ancora i viadotti chiamati Pecetti e Fado sono chiusi. L’autostrada è una coronaria infartuata. Entro qualche ora la A26 verrà restituita per metà al traffico, una corsia per ogni senso di marcia tra l’allacciamento della A10 e lo svincolo di Masone, l’emergenza traffico ci fa parlare tutti come l’Onda Verde della radio. Da Ponente a Levante si producono ammassi elicoidali di automezzi che provano ad arrampicarsi o tentano di discendere, la statale del Turchino a un certo punto pare un tappone del Tour de France. Il nodo scorsoio è il casello di Genova Ovest, dove per forza bisogna uscire per raggiungere il porto e tentare un bypass di altissima cardiochirurgia veicolare.
Tutto è immobile, paradossalmente silenzioso: tale è lo sgomento, tanta è la rassegnazione che i dannati dell’Ingorgone Apocalittico nemmeno suonano più il clacson. Hanno lasciato ogni speranza, loro che non entrano da nessuna parte. Immaginate un imbuto lungo una trentina di chilometri. L’uscita a Sestri su via Guido Rossa è un altro punto di assoluto tormento nel labirinto intestinale di una città che patisce il traffico anche nei giorni normali, anche prima del Ponte Morandi, anche prima dei viadotti lastricati con le piastrelle ma senza cemento, come il più tragico dei balconi. Figurarsi adesso.E mentre il sindaco Bucci invita a usare solo i mezzi pubblici che sono gratis «e lo resteranno finché ci sarà bisogno», mentre Toti parla di Stalingrado, Genio Civile e viadotti lastricati d’oro, la città mostra quella pazienza che altri non hanno. Sa sopportare perché abituata a patire. «Siamo rassegnati, ma anche pieni di risorse» dice Antonio il tassista che il giorno del Morandi si salvò per miracolo, «ero passato lì sopra tre minuti prima, portavo due turiste russe all’aeroporto e non mi sono accorto di niente, neanche di essere vivo», e che racconta di quando i turisti si facevano accompagnare vicino alle macerie per un selfie. «Se è passato questo, passerà tutto, persino il presidente Preziosi al Genoa…» dice, scherzando fino a un certo punto.
Il giorno dell’auto immobile si trascina così verso l’ora di pranzo, quando sulla A26 viene praticata la circolazione extracorporea. Anche il traffico pesante lentamente si fluidifica, e intanto arrivano le prime testimonianze dei reduci. Quello che ci ha messo quaranta minuti per percorrere cento metri dalle parti di Mele, quell’altro che da Ovada a Voltri è rimasto al volante quattro ore e mezza invece di mezz’ora.
Molti narrano sui social le loro odissee, prendendosi una rivincita su Google Maps che «ormai è vecchio, racconta balle, mostra una città che non esiste». E appena appena la situazione sembra migliorata, e i bronchi del traffico tornano a respirare un po’, ecco una frana sull’Aurelia verso Arenzano, a Vesima, così anche la povera A10 torna a soffrire: un solo senso di marcia, dose minima del disagio. A sera andrà meglio, ma dalle nuvole di nuovo ammassate incombe infine una minaccia: oggi diluvierà, c’è allerta arancione come il 15 novembre quando un fulmine spense la Lanterna, sinistro messaggio degli dèi.
È un crudele gioco dell’oca per raggiungere il centro magicamente libero ma così è troppo facile, così non vale, lì le auto non potrebbero entrare comunque. Sono altri, i luoghi della visione che più conta e rivela. Il primo è il porto, con la sua montagna di container colorati e rimorchi fermi come statue: questo è il polmone malato di Genova, resistente e superba. Il secondo è la Valpolcevera, dove nel cielo già s’allunga un tronco del nuovo ponte disegnato da Renzo Piano come un dono alla sua città dolente e magnifica. Avrà l’aspetto di una nave, il nuovo Morandi che ora scavalca il vuoto nell’intrico delle gru, gigantesco meccano che ridarà forma a un destino. La sagoma della chiglia è già nitida, si tratta solo di salpare. Le vele, quelle stanno nel cuore.