il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2019
Storia culturale della rosa
“Nessuno si è seduto ad aspettare che la rosa si apra, ma tutti parlano della rosa”. Ultima venne Claudia Gualdana, che ha licenziato con Marietti 1820 il delizioso saggio Rosa. Storia culturale di un fiore. Sì, perché la rosa è “un archetipo della coscienza collettiva: come il loto è simbolo dell’Oriente, la rosa lo è dell’Occidente”.
Il nostro mondo è un giardino infiorettato; tutto profuma di rosa: la letteratura, l’arte, la religione, la musica e il cinema, da La rosa tatuata al lolitesco bagno nei petali di American Beauty. Di petali e spine si nutre da sempre il nostro immaginario, anche alle più algide altitudini della filosofia – vedi lo Zarathustra nietzschiano – e alle più torride latitudini della poesia: “Immarcescibile” è il fiore di Borges, “sconcertante” quello di Rilke; seguono le favole di Esopo con protagoniste le piante vanitose, il sempreverde che invidia la rosa perché bella e la rosa che invidia il sempreverde perché vive a lungo.
“Sia essa un’essenza, un fiore o un’idea”, la rosa è associata a un’ambigua simbologia: da un lato è metafora di caducità, dall’altro d’immortalità; rappresenta la castità ma anche la lussuria, la purezza e il peccato, il pudore e la seduzione. Gli artisti hanno sempre giocato con questa ambivalenza, a partire dal nome, dal Nome della rosa di Eco al “Rose is a rose is a rose is a rose” della Stein, alla celebre battuta di Giulietta: “Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo”.
Pure nella Storia ambigua e altalenante è la fortuna del “flos florum”, il fiore dei fiori, rigoglioso e venerato dagli antichi, a Babilonia, a Creta, a Rodi, nell’Egitto di Cleopatra, che conquista Antonio su un talamo fiorito, e nel mondo greco-romano. All’occhiello di Afrodite e Adone la rosa è protagonista dei riti dionisiaci e orgiastici, in cui piovono petali dal cielo: si pensa, infatti, che siano utili per contrastare i postumi della sbronza ed evitare agli ubriachi di parlare a sproposito. Tale credenza sopravvive fino al XV secolo, quando nelle locande si appendono rose al soffitto per serbare i segreti di chi, brillo, si lascia andare alle confidenze. Di rose è pieno il mare, il golfo di Napoli ad esempio, ricoperto di fiori per propiziare la navigazione dei nobili patrizi. “Iacere in rosa si dice per indicare l’ostentazione del lusso e c’è chi accosta la crescente infatuazione per il fiore all’avanzare della decadenza romana”. Profana ma pure sacra, la rosa è portata in processione durante le Rosalia, i culti sepolcrali, e sotto forma di oli e unguenti viene spalmata sul corpo dei defunti – come testimonia l’Ettore dell’Iliade – per rallentare la putrefazione ed eternare la fama del morto. Per i pitagorici rappresenta addirittura il numero perfetto del 5, ovvero “l’unione di maschile e femminile”.
Con l’editto di Costantino del 313 inizia il declino della rosa, “appassita di vergogna” e declassata a fiore pagano e peccaminoso; oltretutto “Gesù preferisce piante utili” e fruttifere. Venere, “la sgualdrina” per sant’Agostino, viene bandita insieme alla sua flora, ma sarà proprio un altro Padre della Chiesa, sant’Ambrogio, a riabilitarla, dopodiché tornerà a sbocciare: nei chiostri monacali, nei rosoni delle chiese gotiche e infine nelle celebrazioni per la vittoria di Lepanto nel XVI secolo. A Maria si associa il rosario, la rosa trionfa a Pentecoste, viene istituita la Dominica rosarum e nasce la Rosa-Croce; persino Lutero il bacchettone la esalta come simbolo cristico.
La rosa rifiorisce anche in letteratura con il duecentesco Roman de la Rose fino allo Stilnovo, al De amore e a Dante, che canta nella Commedia “la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie”. Persino l’imperatore Federico II si improvvisa poeta di fiori “fronzuti”, e la rosa ritrova il suo originario statuto erotico, amoroso e fin bellicoso, come “figura d’arme”. Con Shakespeare si fa la Guerra delle due rose, mentre in Germania il fiore e il sangue hanno lo stesso lemma (bluot).
Chiude il saggio una “aulentissima” antologia – letteralmente una raccolta di fiori –, con versi di Goethe e Dickinson, Pascoli e Ungaretti, Metastasio e Pound, Pierre Louÿs l’erotomane e Caproni il sibillino: “Nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa”.