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 2019  novembre 27 Mercoledì calendario

Intervista a Paolo Landi

Corregge lo Zingarelli, tanto per cominciare: «Si pronuncia ìnfluencer, con l’accento sulla “i”, e non sulla prima “e”, come facciamo noi italiani pensando all’influenza e procurando risolini agli inglesi». Puntiglio giustificato: Paolo Landi ha avuto per professoressa Adele Corradi, l’unica donna che insegnò l’italiano ai ragazzi della scuola di Barbiana. «Sono nato nel Mugello. In prima media conobbi don Lorenzo Milani, mentre dipingeva san Francesco su una vetrata. Mi allungò il pennello: “To’, disegnagli i coglioni... Scusa, volevo dire i cordoni del saio”». 
Landi è un advisor di comunicazione. Ha cominciato curando l’ufficio stampa di Vittorio Gassman e del regista Luca Ronconi. Mentre lavorava per lo stilista Enrico Coveri, fu scoperto da Oliviero Toscani, che lo portò alla Benetton, dove rimase per 20 anni. È stato responsabile sviluppo corporate alla Pinacoteca Agnelli del Lingotto. Oggi si occupa di Ovs, Upim, Coin, Bologna fiere e altre aziende. Ha appena scritto un saggio dedicato idealmente a Chiara Ferragni, la regina degli influencer. La nave di Teseo lo manderà in libreria il 28 novembre con il titolo Instagram al tramonto, reso ancora più intrigante da un mosaico di crepuscoli in copertina, rubati dallo smartphone di Toscani. «Lo sapeva che questo social ha un’impennata di “mi piace” verso sera perché tutti postano foto di paesaggi al calar del sole?». 
Sbaglio o il titolo è anfibologico? 
«Non sbaglia. Gioca sull’ambiguità: il fenomeno di massa vespertino potrebbe prefigurare il declino di Instagram». 
Con oltre 1 miliardo di utenti attivi? 
«Credo che Second Life ne conti suppergiù 600.000. Eppure 15 anni fa era una potenza. Oggi chi parla più di avatar? Un social cinese di clip musicali, Tik Tok, sta seriamente insidiando Instagram e anche Facebook arranca». 
Ma a che serve Instagram? 
«Ad avere un contatto immediato con il mondo. In realtà è una trappola formidabile per l’ego. Ci fa credere che sia importante ogni istante della nostra vita, incluso mangiare un sushi, del quale infatti postiamo la foto al volo». 
Perché gli uomini di oggi sono narcisi mentre i nostri genitori non lo erano? 
«Perché siamo condannati alla solitudine dalla tecnologia. Starsene chiusi in camera è una condizione ormai elevata a sistema di vita. L’interazione degli individui sui social è paragonabile a un vizio solitario, al consumo di una droga leggera che non intacca l’ordine conformista. I nostri padri avevano la comunità, oggi c’è solo la web community. Crediamo di usare Instagram, invece veniamo usati». 
In che modo? 
«Per esempio, ci fa pagare le sponsorizzazioni. In questo momento io ho 2.121 follower. Se volessi essere seguito da più persone, le potrei comprare. Ricevo ogni giorno offerte in tal senso: 5,98 euro per 200 follower; 7,55 per 500; 9,98 per 1.000; 29,90 per 5.000». 
Lei scrive che è «un grande moltiplicatore di felicità». Si guardi attorno: io vedo rancore, rabbia, sguaiataggine. 
«Felicità fittizia. Il pascolo degli hater, gli odiatori professionali, è Twitter, che a me fa paura. Instagram è più borghese». 
Dove trova il tempo per frequentarlo? 
«Eeeh...». (Smorfia di rassegnazione). «Prima in treno tenevo fra le mani un libro, ora lo smartphone o il tablet. Avverto sempre un senso di colpa mentre uso Instagram. Sto meditando di uscirne». 
Alleluia! 
«Parliamoci chiaro: alla fine stufa. All’inizio, quando vedi che la gente ti segue, è adrenalinico, fa scattare lo snobismo. Dopo un po’ subentra la noia». 
Se avessi un posto di responsabilità come il suo, assumerei solo candidati che non figurino in queste vetrine. 
«Dissento. È una modalità di comunicazione con cui dobbiamo confrontarci. Non va demonizzata. Però mi piacerebbe che le persone andassero oltre, capissero che cosa stanno consumando». 
Vasto programma. 
«Quale sarà l’élite del futuro? In passato era selezionata dal digital divide, il divario tra chi è in grado di utilizzare gli strumenti digitali e chi non lo è. Ma oggi la tecnologia è talmente facile che tutti la sanno usare. Allora chi sceglierà la classe dirigente che decide i destini altrui?». 
Poniamo che su Instagram si potessero pubblicare solo volti, mai corpi. Pensa che avrebbe lo stesso successo? 
«Mi chiede se è fatto per i guardoni? Sicuramente. C’è voyerismo nel fotografarsi quasi nudi e feticismo nel postare persino le istantanee dei piedi. Ma di sesso su Instagram si parla solo sottotraccia, c’è persino una policy che vieta di mostrare il seno nudo. Semmai considero vagamente pornografica la nevrosi di passare da un profilo all’altro, l’avidità compulsiva che ti costringe a scorrere incessantemente i mosaici delle foto e a distaccarti dalla realtà per cercare emozioni visive sempre nuove». 
Che mestiere è quello dell’influencer? 
«Interessante. Anticipa un futuro in cui il lavoro, almeno quello del terziario avanzato che conosciamo oggi, sparirà. L’influencer è un tizio totalmente occupato e nello stesso tempo totalmente ozioso. Che cosa fa Chiara Ferragni?». 
Stavo per chiederglielo. 
«Lavora mentre viaggia in prima classe, mentre prova un vestito griffato, mentre degusta uno champagne. La pagano per essere sé stessa, al contrario delle modelle che hanno un contratto. Oggi le case di moda, le compagnie aeree, gli hotel di lusso, i ristoranti, i brand della gioielleria sono disposti a pagare da 5.000 a 50.000 euro per un post in cui un influencer indossa un capo, si fotografa nel letto di una camera d’albergo o davanti a un piatto, sfoggia un orologio, taggando i relativi marchi». 
Ha conquistato 17,7 milioni di seguaci. Donald Trump è fermo a 15,3. 
«È in gamba. Ha capito le potenzialità di Instagram, diventando imprenditrice digitale. Niente, comunque, a confronto con Kim Kardashian, più celebrity che influencer seguita da 151 milioni di persone, che guadagna cifre iperboliche». 
Ma chi la paga avrà un ritorno? 
«Qui subentra, soprattutto in Italia, il senso d’inferiorità delle imprese nei confronti della tecnologia. Spesso i direttori marketing, per non apparire superati, si fanno prendere per il naso da ragazzotti che s’improvvisano influencer». 
Siamo sicuri che nell’abbigliamento detti legge Instagram anziché «Vogue»? 
«Io dico che la moda morirà, se non la smette d’inseguire i social. “Vogue” ha molta più autorevolezza nel decidere lo stile. Ma i designer si sono prostrati ai piedi degli influencer». 
Da 40 anni pianifica la pubblicità sui giornali. Perché continua a farlo, anziché buttarsi sui social? 
«Ho dovuto aggiungere anche quelli e i siti. Però al fatto che Instagram dia impulso alle vendite non ci credo». 
Nel 2006 tolse la tv ai suoi figli di 11, 9 e 6 anni per salvarli dai troppi spot. Oggi come si regolerebbe con Instagram? 
«Allora il televisore era un mobile in salotto, potevi controllarlo. Ora sarebbe difficile privarli del telefonino. Resta valido l’insegnamento di don Milani: “Un bambino che si occupa di cose più grandi di lui è sempre un imbecille”. Ho nostalgia della Rai in bianco e nero, di Giovanna la nonna del Corsaro nero e dei Racconti del faro con Fosco Giachetti». 
Lei scrive che «si sfugge al kitsch di Instagram solo uscendo da Instagram». Sbaglia: si sfugge non entrandoci. 
«Che sia un grande laboratorio del cattivo gusto, è fuori discussione. Penso alla Gioconda sulle tazze da caffè. Penso alla copertina di un libro Adelphi, l’epitome dell’eleganza, che postata su Instagram diventa triviale. Però, se ci riflette bene, i social li ha inventati il cervello umano. Da che cosa fuggivamo quando ci siamo accorti che tutto quello che avevamo non era più sufficiente? Perché la stampa, il cinema, la tv, la radio non ci bastano più? Perché le nostre sinapsi sono andate in cerca di connessioni globali, virtuali?». 
Lo chiede a me? L’esperto è lei. 
«Non ho la risposta». 
Nel suo libro ci sono otto screenshot del suo amico Oliviero Toscani. 
«Collage delle immagini di Instagram ottenuti pigiando due tasti dell’iPhone. Oggi che non serve più la tecnica, perché tutti fotografano, sarebbe tempo di pensare alla qualità. Ma nessuno lo fa». 
Due sono su Gesù e sul Dalai Lama. 
«Cristo ha solo 41.000 follower in Instagram, benché con il bollino blu che lo identifica come “personaggio pubblico”. Papa Francesco si sforza di avvicinarsi al gergo giovanile, ha persino definito la Madonna “influencer di Dio”, ma non si rende conto che i social segnano l’emancipazione degli uomini dalla religione. Il mondo non è più considerato una creazione divina. Il Dalai Lama affascina signore snob e ragazzi alternativi che il cattolicesimo non riesce ad agganciare. La litania “Nam Myoho Renge Kyo” appare più cool della recita del rosario». 
I profili di Gesù su Instagram sono quasi tutti parodistici e blasfemi. 
«Un’esperienza che mi ha sconvolto. Le immagini sacre raccolgono solo insulti, commenti volgari, bestemmie. Invece per il Dalai Lama massimo rispetto». 
Pietà per i vivi, ma non per i morti. 
«Su Instagram non si muore mai. Uno degli screenshot di Toscani è dedicato a Jackie Kennedy, celebrata come se fosse in vita. Ho visto commenti entusiastici persino sui mocassini che indossava il defunto più famoso d’Italia. Non c’è pace per i ricchi. L’ossessione della morte coincide con il tentativo di superarla, nell’accertata impossibilità di abolirla». 
Ma lei vorrebbe per sé un ovale smaltato su una lapide o una foto online? 
«Sono all’antica: una croce di pietra che invecchia sotto la pioggia».