Corriere della Sera, 26 novembre 2019
La resistenza senza tabù
Nell’introduzione alla monumentale Storia della Resistenza pubblicata da Laterza, Marcello Flores e Mimmo Franzinelli si domandano come mai quella stagione rappresenti ancor oggi un «fattore di divisione» e non goda «dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi». Già, come mai? Il 1991, con la pubblicazione del libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri), segna secondo Flores e Franzinelli «una data discriminante» nella storia degli studi su questo tema. Ed è da quel volume che i due storici prendono le mosse per raccontare – sulla base di una documentazione davvero sterminata – cosa avvenne in quel biennio tra il 1943 e il 1945. Senza nessuna omissione. Anzi, insistendo – «più di quanto un coerente equilibrio avrebbe suggerito», ammettono – «su alcuni aspetti che hanno fornito le occasioni più numerose a polemiche e contrapposizioni (il confine orientale, la violenza partigiana e tra partigiani, i rapporti tra Resistenza e Alleati)». Nella speranza «di contribuire a una maggiore conoscenza di realtà e fenomeni estremamente complessi e contraddittori».
Flores e Franzinelli sostengono che l’unità del movimento partigiano, perseguita insistentemente dal Cln, si realizzò soltanto alla fine dell’aprile 1945 con «l’assegnazione a ogni brigata di una zona da governare provvisoriamente». Prima di quei giorni la Resistenza era stata caratterizzata da conflitti interni generati da «tentativi scissionisti» per ribaltare gli assetti direttivi di un gruppo partigiano. Ma anche da passaggi contrastati dall’una all’altra formazione, oltreché rivalità tra bande operanti nella stessa zona (ognuna di esse avrebbe voluto essere la sola a utilizzare le risorse esistenti in loco). E da polemiche sull’appropriazione degli aiuti lanciati dagli aerei, da riluttanza dei piccoli gruppi autonomi a inquadrarsi in formazioni legate al Cln, dalle ripercussioni delle tregue d’armi che questo o quel gruppo aveva negoziato con i tedeschi.
La storiografia, secondo i due studiosi, ha «ignorato o sottovalutato questi aspetti», nonostante «essi rappresentino un fattore costituivo del partigianato e condizionino moltissime realtà». Certo, sono stati scritti libri che hanno preso di petto tale questione come Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani: la storia di Azor (Aliberti) di Massimo Storchi; Patrioti contro partigiani (Cierre) di Egidio Ceccato; Malga Silvagno. Il giorno nero della Resistenza vicentina (Marcolin) di Ugo De Grandis; La Quarantasettesima (Einaudi) di Ubaldo Bertoli. Ma gran parte degli storici ha sorvolato o trattato queste controversie come un fenomeno marginale. E invece – sostengono Flores e Franzinelli – non fu così. Esse rappresentano ancora oggi «un grumo irrisolto della memoria resistenziale». Basti pensare al fatto che non esiste vallata alpina o appenninica nella quale non si siano verificati scontri di questo genere, poi «giustificati dalla fazione vincente come doverosa repressione di elementi indisciplinati, disonesti, violenti, dediti ad attività banditesche».
Come mai queste storie sono rimaste («troppo a lungo») nell’ombra? Probabilmente «per il timore di prestare il fianco ai denigratori della Resistenza». Ma è stato un grande errore. Gli italiani sarebbero stati in grado di capire. Lo dimostra il fatto che «la denuncia delle azioni controverse del Risorgimento» non squalificò affatto «un fenomeno che, per quanto contraddittorio e pervaso di lotte intestine, fu capace di forgiare l’unità nazionale». È venuto perciò il momento di compiere un’«operazione verità» anche nei confronti del biennio della guerra civile. Dal momento che quel silenzio, proprio per il fatto che amputava «la complessità del movimento di liberazione nazionale», lo ha gravemente danneggiato «rendendolo monco e poco credibile agli occhi dei posteri». E veniamo ai quattro casi citati nella Storia della Resistenza di Flores e Franzinelli.
Dante Castellucci, detto «Facio», operò in Emilia ed entrò in conflitto con la dirigenza provinciale comunista, da lui accusata di «attendismo». I comunisti reggiani lo accuseranno di essere una spia dei nazisti e di essere coinvolto nell’assassinio dei sette fratelli Cervi. Altri comunisti, quelli di Parma, poco convinti delle argomentazioni dei reggiani, gli offriranno una seconda chance inviandolo a combattere con un distaccamento garibaldino che opera in Lunigiana. Qui «Facio» si distinguerà per alcune imprese davvero eroiche. Ma i suoi denigratori insisteranno, lo accuseranno di essersi appropriato di rifornimenti lanciati da aerei alleati e lo manderanno a morte il 22 luglio 1944. Secondo Gordon Lett, maggiore inglese alla guida di un battaglione internazionale che operava in zona, a decidere furono «i comunisti che intendevano mantenere una supremazia numerica e politica su ogni altra forza». I compagni di «Facio» nella Lunigiana verranno poi dispersi, a conferma che la sua uccisione «ha comportato la perdita del comandante più capace». Nel 1963 l’Anpi riconoscerà che «Facio» era stato un grande partigiano e gli assegnerà una medaglia d’argento al valor militare, pur con una ingannevole motivazione sulle modalità della sua morte («sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto»).
Riccardo Fedel, nome di battaglia «Libero», fu un elemento di spicco della Brigata Romagnola. Dopo alcuni insuccessi militari, nell’aprile del 1944 Fedel viene spostato in Toscana dal comunista Ilario Tabarri («Pietro»), asceso alla guida della formazione partigiana nonostante i malumori di alcuni uomini della brigata stessa. Per mettere a tacere questo dissenso, Fedel viene accusato di essersi impossessato di una somma di denaro lanciata dagli aerei inglesi. L’accusa si dimostrerà totalmente infondata, ma a giugno Fedel verrà ucciso, presumibilmente da compagni fedeli al Tabarri. Sulla sua uccisione esiste una rapporto di Rosario Bentivegna (il gappista che partecipò all’attentato di via Rasella) che spiega come «Libero» sia stato condannato a morte dal Tribunale militare partigiano «per alto tradimento» e «giustiziato». Secondo Bentivegna, Fedel «a contatto con la polizia fascista e tedesca voleva consegnare – mediante trattative – la Brigata in mano alla milizia»; avrebbe «organizzato un complotto col preciso scopo di sopprimere Tabarri che gli era succeduto al comando della Brigata e vari altri responsabili partigiani, ufficiali e commissari». Una montatura. Non esiste prova a sostegno di queste accuse e il corpo del partigiano non verrà mai ritrovato. «Libero» venne ucciso «in segreto, dopo che già aveva accettato la rimozione ed era pronto ad andare a combattere altrove», sottolineano gli autori di questa Storia della Resistenza. La sua scomparsa, aggiungono Flores e Franzinelli, ha favorito per decenni un racconto della Resistenza romagnola in cui, a partire dai fecondi rapporti con gli ufficiali britannici, «sono stati di fatto cancellati i primi mesi di attività ed esistenza».
Un altro caso affrontato dagli autori è quello del maggiore americano William V. Holohan, comandante della missione «Chrysler» (furono paracadutati nel settembre 1944 sul monte Mottarone) che avrebbe dovuto operare dietro le linee. Holohan è ad ogni evidenza inadeguato, pretende che i suoi uomini indossino costantemente la divisa, con ciò condannandoli all’inattività. Il suo vice, l’italoamericano Aldo Icardi, si mostra perplesso, finché il 6 dicembre a seguito di un presunto scontro con i tedeschi Holohan sparisce. Icardi lo sostituisce e da quel momento la «Chrysler» ottiene risultati considerevoli. Nel dopoguerra il fratello del maggiore americano, insospettito, viene in Italia, dove svolge delle indagini che si concludono con il ritrovamento del suo cadavere, chiuso in un sacco, nel Lago d’Orta. A far uccidere Holohan (e a mettere in scena lo scontro a fuoco con le SS) sarebbe stato, per «venalità e ambizione», lo stesso Icardi. Il quale nell’ottobre del 1953, a Novara, viene sottoposto a processo e condannato all’ergastolo. In contumacia.
Alcuni leader della Resistenza, il cattolico Giovanni Marcora e il socialista Aldo Aniasi, confermano la loro stima a Icardi, nonostante nell’America maccartista il «Daily Time», supplemento settimanale del «New York Times», abbia sollevato il caso mettendone in risalto gli aspetti più scabrosi. E nonostante da più parti venga insinuato che Holohan sarebbe stato giustiziato perché anticomunista, nonché in conflitto con Cino Moscatelli. Si scoprirà infine che l’autorizzazione a eliminare Holohan era venuta dai vertici alleati e nel 1999 a Icardi verrà offerta dall’Anpi una tessera onoraria.
Scandalosa è infine la damnatio memoriae che ha colpito il tenente colonnello Raffaele Menici, già combattente nella Prima guerra mondiale sul fronte dell’Adamello e amico di Cesare Battisti. Nel 1944 Menici combatte in Val Camonica, poi in Val Saviore. Il sottotenente tedesco Ilmar Kaasik ottiene dai partigiani una tregua d’armi la cui gestione viene affidata al ventiseienne Pietro Chiodi. Tra lui e Kaasik si instaura un rapporto «di cointeressenza e reciproca copertura». Menici è estraneo a questa tregua. Quando a ottobre Kesselring ordina la «lotta alle bande», un reparto germanico circonda l’abitazione di Menici che sfugge all’arresto. Ma vengono catturati alcuni suoi familiari. All’insaputa di Menici, un distaccamento di Fiamme Verdi, per reazione, attacca un’auto tedesca. Il commissario delle Fiamme Verdi, Nolfo di Carpegna, si giustifica con i tedeschi attribuendo la responsabilità dell’atto a Menici. Menici viene convocato da Kaasik ad un appuntamento dove, gli si dice, potrà trattare la liberazione dei suoi. Lì troverà invece Chiodi, che lo arresterà per «tradimento» e lo condurrà in una baita in Val Brandet. Qui verrà sottoposto a una «parvenza di processo» nel quale testimonierà lo stesso Kaasik. In un battibaleno verrà condannato a morte, poi «graziato» per essere condotto in Svizzera. Ma il tempo di giungere in un punto fuori mano e verrà ucciso con una raffica di mitra.
Finita la guerra, questa storia diverrà un caso di grave imbarazzo per Chiodi. Per coprire le sue responsabilità, scrivono Flores e Franzinelli, si cercherà «di trasformare il tradito in traditore, assassinandolo moralmente e infangandone la memoria». Addirittura il direttore dell’Istituto storico della Resistenza bresciana, Dario Morelli, farà sparire alcuni documenti. E ancora nell’aprile del 1975 su «La Resistenza bresciana» (diretta da Morelli) Kaasik verrà descritto come un «tedesco buono», accanito antinazista e prezioso alleato delle Fiamme Verdi, da lui fiancheggiate a rischio della vita. Morelli scriverà in quella circostanza che Kaasik «trasferito in Germania» era alla fine «caduto in combattimento negli ultimi giorni di guerra».
Quella morte, scrivono Flores e Franzinelli, «è pura invenzione in una vicenda già costellata di falsità». E infatti lo storico Carlo Gentile troverà in archivio a Friburgo il fascicolo personale di Kaasik, dal quale si apprenderà che nell’estate del 1945 fu arrestato dagli americani e si sarebbe riciclato come spia nella guerra fredda. Fino alla morte, nel 1970. Ma la «copertura omertosa» a Chiodi – denunciano Flores e Franzinelli – proseguirà con «svuotamento di fascicoli d’archivio», «scomparsa di documenti scottanti», «produzione (a cinquant’anni dai fatti!) di documenti menzogneri», «grossolani falsi». Fino al settembre 1995, quando l’Anpi di Brescia ha organizzato la posa di un cippo nel luogo dell’imboscata mortale a Menici. Un cippo per rendere «omaggio all’antifascista patriota… colpito a tradimento il 17 novembre 1944». Senza alcuna specificazione, però, di chi lo avesse tradito e colpito.
Al 90 per cento la straordinaria Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli racconta in modo particolarmente accurato la parte eroica della lotta di liberazione. Ma il fatto che i due studiosi si siano soffermati – con identica meticolosità – anche su episodi controversi e sgradevoli fa della loro opera un testo destinato a restare negli annali della migliore storiografia italiana.