la Repubblica, 26 novembre 2019
Un cantiere su due è bloccato
Le hanno contate. Le opere per mettere in sicurezza ponti e viadotti, sistemare gli argini di fiumi e torrenti, curare le frane, che sono ancora bloccate sono 354. Trecentocinquantaquattro cantieri fermi sui 750 censiti dall’associazione dei costruttori, che significa il 46 per cento del totale. Per più di un miliardo di euro. Soltanto nella provincia di Vercelli se ne contano più di un centinaio, fra cui una ventina di ponti e almeno tre viadotti. Mentre l’Italia affoga. Ed era febbraio, quando il governo di Giuseppe Conte uno giurava che avrebbe tolto prima di subito la sabbia dagli ingranaggi. La risposta alla paralisi doveva essere lo Sbloccacantieri. Centoquarantasei pagine di Gazzetta ufficiale, un monumentale elogio alla burocrazia se è vero che a dieci mesi dalle promesse, a sette dal decreto e cinque dalla legge di conversione, la paralisi è totale. Ma era tutto assolutamente prevedibile. «Non sblocca un bel niente», ammoniva il segretario della Cgil Maurizio Landini. E ci aveva azzeccato. Sei mesi previsti solo per la nomina dei commissari, e sono passati già cinque e mezzo senza che ne sia stato nominato uno solo dei 77 previsti. Con l’eccezione dell’ex direttrice del Demanio Elisabetta Spitz, spedita al Mose. Ma in tutta furia soltanto dopo il disastro di Venezia, e per commissariare un’opera già commissariata da ben cinque anni. Anche perché chi ha scritto lo Sbloccacantieri hanno previsto, pensate, otto passaggi otto per quelle nomine. Genio inarrivabile.
E dire che sarebbe bastato ricordare. Per esempio che un decreto Sbloccacantieri (si chiamava proprio così) era stato già partorito nel 1997. Nel primo governo di Romano Prodi il ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa, veneziano, era alle prese con gli stessi guai di ora. Pensò così di risolverli affidando i cantieri ai commissari. Peccato che un anno e mezzo dopo la Corte dei conti avesse bocciato senza pietà l’operazione, rivelando che delle 159 opere commissariate i commissari erano riusciti a sbloccarne soltanto 18. Mentre oggi siamo ancora a zero. E in mezzo sono passati ministri di ogni schieramento senza che cambiasse qualcosa, segno che il problema è assai più in profondità di quanto si possa immaginare.
Ma invece di prenderlo di petto con il buonsenso, si continua a cadere negli stessi errori. Spesso smontando ciò che ha fatto il governo precedente per rimontare una cosa che verrà poi smontata dai successori. Con nomi sempre più roboanti. Un esempio? Appena arrivato, il governo gialloverde ha cancellato la struttura di missione “Italia sicura”, creata da Matteo Renzi a palazzo Chigi per coordinare gli interventi sul dissesto. E ora, accanto a una selva di cabine di regìa per gli investimenti fiorite ovunque, spunta “Proteggi Italia”, un piano di 10 miliardi e 853 milioni che prevede un «hub operativo» al ministero dell’Ambiente, con «nuclei operativi di supporto» ai governatori, che saranno nominati «commissari straordinari per il dissesto». Commissari su commissari, una logica folle dalla quale non si esce mentre l’Italia continua a non proteggerla chi finora non l’ha protetta. Le Regioni, per dirne una.
Ma non è cambiato nulla neppure per gli interventi che dovrebbero essere al riparo dalla sfera della burocrazia pubblica. Le autostrade, per esempio. Dice tutto un rapporto sfornato dall’Anac il 17 luglio scorso sulle manutenzioni, uno degli ultimi atti di Cantone. Avviata in seguito a quella sul crollo del viadotto Morandi per verificare lo stato delle opere su tutta la rete, l’indagine ha dato risultati sconcertanti. Nessuno dei 19 concessionari presi in considerazione nel dossier, pari all’86 per cento del totale, aveva rispettato nel 2016 la quota di investimenti dichiarata nei piani finanziari. Per tredici di questi fra cui Autostrade per l’Italia, il più grosso di tutti, e le società del gruppo Gavio come l’Autostrada dei Fiori dove domenica è crollato un viadotto, gli interventi erano complessivamente inferiori al 90 per cento (anche se non si sa esattamente di quanto), mentre per gli altri sei gli impegni non risultavano onorati in relazione a determinate opere. Sul tratto della A6 Torino- Savona, quella appunto del disastro di domenica, non risultavano inoltre rispettate in alcuni anni le norme che impongono l’affidamento degli appalti a imprese non appartenenti allo stesso gruppo. Situazione rilevata anche in altre società concessionarie della galassia Gavio. Quanto ad Autostrade per l’Italia, sulla cui rete insistono 3.911 fra gallerie, ponti e viadotti, ossia il 53 per cento del totale, le spese di manutenzione a essi destinate in 10 anni non avevano superato il 2,3 per cento di tutti gli investimenti in manutenzione: 249 milioni contro 10,6 miliardi.
Eppure nessuno, in tutto questo tempo, aveva avuto il coraggio di mettere mano a questo stato di cose. Ancora più inaccettabile perché le norme attuali consentono ai concessionari di calcolare in tariffa l’intero importo degli investimenti programmati anche se non eseguiti. Cioè paghiamo pure le manutenzioni che non vengono fatte, perché non è prevista alcuna sanzione economica per i concessionari che non rispettano gli impegni. Tanto da ridurre la vigilanza del ministero delle Infrastrutture a una pietosa foglia di fico. Aveva proprio ragione Cantone, che dopo la tragedia di Genova sbottò: «Il privato concessionario fa quello che vuole, si comporta come fosse il proprietario e nessuno lo controlla».