il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2019
L’esercito di robot
Sono passati 35 anni da quando James Cameron spaventò il mondo con il suo film sull’inarrestabile cyborg assassino venuto dal futuro, quel Terminator che aveva la faccia di Arnold Schwarzenegger. Oggi le armi robot non sono più fantascienza: le prime sono già state testate sul campo. Il vantaggio strategico nel settore è in mano a Usa Russia e Cina ma né la politica né la diplomazia riescono a fermare la corsa al riarmo robotico che è in corso a livello mondiale.
Le armi “intelligenti” sono tra i sogni di governanti e condottieri sin dai tempi di Leonardo. Già durante la seconda guerra mondiale i sovietici e altri eserciti svilupparono armamenti filoguidati. In seguito, l’elettronica ha creato armi più o meno “autonome”, come missili siluri o cannoni in grado di seguire e colpire un bersaglio. Questo però è il passato. Oggi il Pentagono definisce arma robot “un sistema che, una volta attivato, seleziona e attacca obiettivi senza alcun ulteriore intervento di un operatore umano”. I tecnici distinguono tra armi con presenza umana in, on o out the loop: dentro, sopra o fuori il circuito di controllo. Nel sistema con l’uomo in the loop l’operatore seleziona un bersaglio e quindi l’arma usa sensori e processi automatici per tracciarlo e colpirlo: vedi alla voce missili aria-aria a guida laser o Gps. Un sistema con i militari on the loop seleziona e colpisce bersagli in modo indipendente ma sotto la supervisione di operatori pronti se necessario a intervenire, come avviene nei sistemi antimissile israeliano Iron Dome, Aegis Phalanx della Marina Usa e Patriot dell’esercito americano. Poi c’è l’arma out the loop che, una volta attivata, opera in modo totalmente indipendente da qualsiasi intervento umano.
L’uomo è “fuori dal circuito” già da anni. Il primo caso a livello mondiale è stato il varo ad aprile 2016 su un fiume dell’Oregon di un trimarano senza equipaggio per la guerra antisommergibile (Actuv) chiamato Sea Hunter. Il prototipo, la cui sola costruzione è costata 20 milioni di dollari, è stato realizzato dopo anni di studi dalla Marina e dall’Agenzia per la ricerca avanzata nei progetti di difesa (Darpa) degli Usa. Sea Hunter, lungo 40 metri, può navigare in totale autonomia per migliaia di chilometri a 27 nodi, sa usare telecamere e radar per tracciare la sua posizione, riesce a individuare altre navi e sommergibili nemici. Nel 2018, dopo aver superato tutti i test di sicurezza viaggiando in mare per due anni e completando in totale autonomia una crociera andata e ritorno da San Diego in California a Pearl Harbor nelle Hawaii, Sea Hunter è stato ufficialmente inserito nella flotta militare Usa. L’obiettivo strategico delle navi robot per la Marina da guerra di Washington è la riduzione dei costi: al posto di flotte composte da navi di grandi dimensioni con equipaggi numerosi, estremamente costose, saranno usate meno navi con equipaggio e molte navi robot. Fred Kennedy, direttore dell’ufficio tecnologico tattico della Darpa, ha dichiarato che “gli Usa conoscono l’importanza strategica di sostituire i pezzi ‘re’ e ‘regina’ sulla scacchiera navale con un sacco di ‘pedine’: Sea Hunter è il primo passo in questa direzione”.
Ma negli Usa non c’è solo la Marina. Anche il Pentagono da anni si è dotato di una strategia e centri studi propri per le armi robot: sta sviluppando un carrarmato robot e sta testando un veicolo terrestre robotizzato da trasporto in grado di rifornire la fanteria fino a 100 chilometri di distanza con una autonomia di 72 ore. Pure l’Aeronautica Usa testa software che consentono ai piloti di caccia di guidare velivoli senza pilota di accompagnamento verso posizioni nemiche, dopodiché i droni cercheranno e distruggeranno da soli radar e altri obiettivi chiave. Nel gennaio 2017, il Dipartimento della Difesa Usa ha pubblicato un video che mostra 103 droni robot che sorvolano la California senza intervento umano. Un portavoce l’ha descritto come “un organismo collettivo che condivide un cervello distribuito per decidere: i suoi membri si adattano l’uno all’altro come uno sciame di insetti”.
Le altre superpotenze stanno perseguendo gli stessi progetti. Mosca ha presentato diversi veicoli terrestri senza pilota, tra cui il piccolo carro armato robot Uran-9 e il carro robot pesante Vikhr, armati con mitragliatrici cannoni e missili, in grado di operare con un certo grado di autonomia. Nel 2016 l’esercito russo ha acquistato 22 Uran-9 e maggio 2018 ha rivelato di averli testati in combattimento in Siria.
Le “recensioni” sono state divergenti: per i militari russi non avrebbero funzionato bene mentre la rivista Jane’s, vera “bibbia” mondiale degli armamenti, ne ha invece lodato i risultati. La strategia russa su questo fronte è stata resa nota nel 2015: l’obiettivo è dispiegare il 30% delle armi russe su piattaforme a controllo remoto entro il 2025. I progetti attuali includono veicoli da trasporto fanteria, il robot da combattimento Bmp-3 Vihr, carri armati robotizzati T-72 e minuscoli veicoli robot Nerekhta per evacuare soldati feriti o attaccare postazioni nemiche.
Pure la Cina sta lavorando a una gamma segreta di sistemi d’arma autonomi e semi-autonomi aerei terrestri e marittimi. Tra questi il drone aereo armato Blowfish A2 del produttore Ziyan, il carrarmato Norinco con mitragliatrice e lanciarazzi e il Progetto 912 di sottomarini robot. Israele è un altro Stato con forti competenze tecnologiche nel settore, come pure Inghilterra e Francia.
Dove c’è guerra c’è business. Alle armi robot non sono interessate solo le società di armamenti “classiche” ma soprattutto quelle tecnologiche, specie sul fronte dell’intelligenza artificiale, come Alphabet (Google). Ma la corsa al riarmo robotico genera un allarme crescente tra diplomatici, attivisti per i diritti umani, sostenitori del controllo degli armamenti e tutti coloro che temono che l’impiego di armi autonome riduca drasticamente i diritti umani, violi le leggi di guerra e crei i rischi di un’escalation che dalla guerra convenzionale porti a quella nucleare. Gli interrogativi sul loro uso sono inquietanti: un minicarrarmato robot saprebbe distinguere tra combattenti nemici e civili inermi in un teatro di battaglia urbana affollato, come richiesto dal diritto internazionale? Il capitano di un sottomarino inseguito da una implacabile nave antisommergibile robot potrebbe decidere il lancio di missili balistici a testata nucleare piuttosto che rischiare di perderli a causa di un attacco preventivo?
A livello internazionale non esistono divieti legali nazionali o internazionali per lo sviluppo di questi sistemi. Da anni una ventina di Paesi ha chiesto all’Onu un divieto preventivo di queste armi sulla base di considerazioni etiche, mentre altre nazioni chiedono invece regole internazionali valide per tutti. Ma i Paesi in vantaggio strategico non permettono che la discussione diplomatica arrivi a una decisione. Già da sei anni le organizzazioni per il disarmo e i diritti umani, come Human Rights Watch, sono impegnate in una campagna mondiale per fermare i robot killer che continua però a scontrarsi contro un muro di gomma. Il rischio crescente è che finisca per concretizzarsi la profezia annunciata a maggio 1953 da Philip K. Dick nel suo racconto di fantascienza “Modello 2”: in un mondo ridotto a un cumulo di rovine, gli ultimi soldati si scannano reciprocamente ma nel contempo devono difendersi da robot killer. I quali però, a loro volta, cominciano già a distruggersi l’un l’altro.