il Giornale, 25 novembre 2019
Biografia di Tony Adams
«Sono nato il 10 ottobre del miglior anno in assoluto del calcio inglese, il 1966, a Romford nell’Essex e sono stato battezzato Tony Alexander. Tony perché piaceva a mia madre Caroline che si arrabbia se qualcuno mi chiama Anthony. Alexander è il nome di mio padre ed è stato senza dubbio lui ad esercitare la prima e più significativa influenza su di me. Nei miei ricordi mi vedo ancora a bordo campo, in genere bagnato fradicio e infreddolito, a guardarlo giocare. Ricordo una partita ad Hackney Marshes in cui ero l’unico spettatore. Faceva un freddo cane ma non volevo né potevo andarmene perché persino allora, a soli sei anni, adoravo assistere alle partite. Subito dopo il fischio finale papà mi ha preso in braccio e mi ha portato di corsa a fare la doccia per scongelarmi».
Fin qui una storia tenera. E per chi ama sentirsi ribaltato dai sentimenti e rapito dalla comprensione umana, quasi una favola, quella dell’asino bevitore che giocava a football. Ha firmato il primo ingaggio da professionista con l’Arsenal, che non ha mai lasciato, e tutti gli altri rinnovi senza mai leggere le cifre sul contratto. Ma fuori Highbury gli facevano il verso del raglio e gli gridavano asino. Legnoso, macchinoso, lento con la palla, lui e Terry Butcher, l’asino e il macellaio, stereotipo dei centrali di Sua Maestà, guardare l’Inghilterra senza due come loro era non riconoscerla, alti, 1,91 e 1,93, robusti, austeri e inadatti per postura, spigolosi, goffi.
Ma con spirito indomito e mentalità vincente, le carte giuste per spazzolare il banco dei premi. Tony capitano dell’Arsenal e della nazionale inglese, quattro Premier league, tre Fa Cup, due coppe di Lega, una Coppa delle Coppe. Possibile perché lo sgraziato Tony Adams ha due spalle così, ognuna con appollaiata la sua bella scimmia irrequieta, su una il calcio, sull’altra l’alcol, portate con dignità esagerata: «Sono felice solo quando posso infilarmi un paio di scarpe da gioco. E poi finita la partita una sbronza per festeggiare una vittoria o una sbronza per dimenticare una delusione».
Il calcio l’unica ragione per stare al mondo e l’alcol una radio sintonizzata ventiquattro ore su ventiquattro sui pub della zona con orari di apertura e chiusura, l’elenco dei frequentatori e i vari tipi di Guinness che può infilarsi nel cervello. Sciacquo e risciacquo, cinque pinte in un’ora non è il suo record.
La storia di Tony Adams non ha un senso così come canonicamente le intendiamo, cioè con un inizio e una fine. Rapido a scalare i vertici del football britannico, precoce a precipitare in diretta, davanti a tutti, miserevolmente: il capitano dell’Inghilterra è un ex galeotto alcolizzato in stato confusionale, titolo secco sui tabloid che lo svergognano. Due missioni, diventare il più grande centrale difensivo della terra e il miglior sciabolatore di birre del quartiere, magari di Londra, del mondo, chissà. «Durante una trasmissione su Sky un giornalista disse che era scandaloso che venisse data la fascia di capitano dell’Inghilterra a un tipo come me. In fondo potevo capirlo».
Tony era un Addicted, dipendente, ma ci ha messo troppo a capirlo prima di chiedere aiuto. Il lunedì mattina si trascina a London Colney per l’allenamento masticando caramelle per confondere il puzzo di alcol che emana, ma non basta, allora si cambia in un angolo, poi in campo si trasforma, urla e grida, incita, spinge il resto della squadra a dare di più: «Ma è così che si deve comportare un bravo capitano, dare l’esempio, non mollare mai». È convinto che per far fuori tutto l’alcol che ha in corpo basta infilarsi sotto la maglia una serie di sacchetti di cellophane per sudare di più ed espellerlo. Lo fanno in tanti, uno schema del calcio inglese di quei tempi, un solo allenamento al mattino e al pomeriggio liberi con licenza di prendersi qualche sbronza nel mito di Stanley Bowles del Qpr, un predecessore che per non perdere tempo va al pub già vestito da calciatore ma che neppure da sua madre riceveva credito: «Se Stan investisse in una catena di cimiteri, la gente smetterebbe di morire». Ma Stan è adorato, da emulare, e Tony ci prova. Quando dopo il famoso impatto contro il palo della luce e l’abbattimento del muro di una villetta, finisce otto settimane in carcere a Chelmsford per guida in stato di ebbrezza, uno dei detenuti gli confida che gli avevano ritirato la patente di guida ma in fondo gli avevano consegnato quella di gran bevitore, e di questo Tony andava molto fiero. Spesso barcolla o cade addirittura in campo, i compagni, compassionevoli, fingono un suo infortunio, lo circondano e lo rianimano. Rotola sulla trentina di scalini del Pizza Hut, 29 punti di sutura in testa, a Hornchurch sradica un estintore e cosparge di schiuma i suoi tifosi che gli chiedono un autografo, in un pub di Leason street si fracassa in testa una pinta di birra, dopo una gara con l’Under 21 sparisce con Robert Lee e li ritrovano in un fosso abbracciati e persi, nel festeggiare un gol a Steve Morrow che gli corre incontro, sullo slancio gli rompe un gomito e lussa una spalla, infortunato interviene in una rissa da pub e spacca in testa la sua stampella a uno dei contendenti.
Tante, altre, troppe, su tutte questa. Ha giocato l’ultima partita della stagione prima di partire per un torneo a Singapore e cercare di guadagnarsi un posto per Italia ’90. Quindi ha tutto il diritto di rilassarsi che poi significa sbronzarsi. Il preparatore atletico dell’Arsenal Gary Lewin lo invita a Convey Island alla festa della locale squadra. Tanti complimenti e una dozzina di drink, poi con Brian Horne, ex portiere del Millwall, inizia un giro dei pub della zona. In un lampo arrivano le cinque del mattino, chiama un taxi e si fa riportare a casa a Rainham, nel pomeriggio deve prendere l’aereo a Heathrow per Singapore. E fin qui tutto nella norma. Si sveglia verso le dieci, ha lasciato l’automobile a Convey Island e vuole recuperarla, così chiama un amico per chiedere di accompagnarlo. Non riescono proprio a ritrovarla e quando dopo mezz’ora la individuano decidono che è una buona occasione per festeggiare con una bella bevuta, si infilano in un pub di Raileigh e dopo quattro o cinque pinte è da un’altra parte, incontenibile e sbruffone, parla con tutti e tutti attorno sono felici di farsi un goccio con Tony Adams. Un tipo si avvicina e lo invita a un barbecue lì vicino, una festa di amici. È in sandali e pantaloncini ma gli rimane ancora un po’ di tempo per andare a casa, mettersi la divisa ufficiale dell’Arsenal, fare la borsa e percorrere un centinaio di chilometri per raggiungere il resto della squadra a Heathrow, così mette la sua quota per qualche cassa di birra e accetta. Si sa come vanno queste cose, ci da dentro, all’improvviso è tardi, non sa neppure con esattezza dove si trovi e perché è lì, sale in macchina e deve aver fatto una cinquantina di metri, non di più perché quelli al barbecue sentono il botto della sua Ford Sierra 4x4 contro un palo della luce che lo scaraventa contro il muro di una villetta. Lo abbatte, andava a 130, esce dal parabrezza in frantumi e si trova davanti due signori di una certa età, gli adorabili proprietari più spaventati di lui: «Tutto bene? Vuole farsi un goccetto per tirarsi un po’ su?».
Tony Adams non ha mai voluto dare dritte in giro ma ha spiegato che l’uomo non si misura per quante volte cade ma per quante riesce a risalire. Alle 17 di venerdi 16 agosto 1996 si fa l’ultimo goccio, poi entra negli Alcolisti Anonimi: «Mi chiamo Tony e sono un alcolista. So che non sarò mai un ex alcolista ma solo un alcolista in via di guarigione». Nel 1999 è stato insignito dalla regina membro dell’Ordine dell’Impero britannico, Highbury non è più la casa dell’Arsenal ma nel nuovo stadio dell’Emirates l’unica traccia del passato è una statua di Tony Adams a braccia larghe che vola dopo aver segnato una rete.