il Giornale, 25 novembre 2019
Biografia di Federico Marchetti raccontata da lui stesso
Prima d’inventarsi un’azienda che macina miliardi, Federico Marchetti aveva un sogno: lavorare alla Walt Disney. «Mandai un curriculum, ma non venne preso in considerazione. Del resto, negli Usa è difficile assumere chi viene da fuori. E a me non mi interessava lavorare dall’Italia. Volevo stare là dove si prendono le decisioni» racconta. In compenso, nel 1999 crea la start up da oltre il miliardo di dollari di casa nostra: Yoox.
Nel 2015, Yoox si fonde con il colosso inglese Net-A-Porter e da un anno Yoox Net-A-Porter appartiene al gruppo Richemont, e Marchetti continua ad esserne presidente e amministratore delegato. È lui al timone di questo leader globale nel lusso online con oltre 3,5 milioni di clienti in 180 paesi. Nel 2017, dunque nella fase ante-Richemont, fattura 2,5 miliardi di euro.
Marchetti arriva sempre in anticipo. È il primo a connettere il mondo della tecnologia con quello del lusso, il primo a comprendere che il futuro sarebbe passato dal mobile, con Ecobox ha lanciato il primo packaging nell’e-commerce composto da materiali 100% riciclabili.
Come si sta nei panni del visionario?
«Visionario? Che parola impegnativa. Sono solo una persona che ha un buon senso del timing».
Riconosce almeno di essere un talento?
«Neppure. Ho solo del coraggio e propensione al rischio, qualità che non possono mancare se vuoi fare l’imprenditore. Poi bisogna avere un po’ di visione, ma tutto sta nel mettersi nelle scarpe del cliente. Non devo inventarmi grandi cose se tutti i giorni penso come la pensano i nostri clienti».
Nel frattempo si è inventato YooxMirror, camerino virtuale che consente di abbinare gli abiti grazie a una app. Una rivoluzione.
«Non è una genialata. È la risposta alla semplice domanda: i clienti cosa vorrebbero? Probabilmente provarsi i vestiti con un’app. Fatto. Quando siamo partiti nel 1999, i vestiti si provano nelle boutique. Poi abbiamo introdotto il servizio di prova dell’abito direttamente a casa con reso gratuito. Adesso si prova di fronte a uno specchio virtuale».
Persona concreta, un vero romagnolo.
«Concreta, ma con tanti sogni».
L’hanno definita un romagnolo-americano. Si riconosce in questa espressione?
«Perfettamente. La mia terra mi ha insegnato a essere estremamente diretto. I romagnoli sono genuini, dicono le cose come stanno. Che è poi il mio forte: la gente non è più abituata all’onestà, per cui dicendo cose semplicissime, nient’altro che la verità, spiazzo. Dunque conquisto».
Il sogno ci porta dritti a Federico Fellini. Tra l’altro Ynap (Yoox Net a porter) ha sponsorizzato il restauro di Amarcord.
«Steve Jobs e Fellini sono stati determinanti nella mia professione, ma se dovessi scegliere fra i due, punterei su Fellini. Jobs ha inventato l’iPhone e noi vendiamo più di 1 miliardo di dollari via mobile, quindi lo ringrazio. Ma Fellini è immaginifico, sognatore».
L’ultimo suo sogno?
«I sogni sono quotidiani, i miei girano sempre attorno al cliente: cosa fare per offrire un’esperienza sempre più bella e nuova. Perché il punto sta nel vendere prodotti ma anche esperienze. Ho sempre creduto nella complementarietà fra tocco umano e tecnologia. Il nome Yoox viene da lì: i cromosomi uomo e donna, Y e X, e la O che è lo zero del codice binario ovvero il dna di internet. Quindi il dna della tecnologica racchiuso da quello dell’uomo e della donna. Un principio filosofico che elaborai subito, nel 1999, e che rimane il nostro riferimento».
Perché voleva lavorare nella Walt Disney dopo una laurea in Bocconi e un Mba alla Columbia Business School?
«È una grandissima azienda. E mi intrigava l’idea di collaborare con industrie cinematografiche americane. A New York mi era piaciuto molto il corso sui media e il cinema. Avevo persino provato a scrivere due sceneggiature, una era molto vicina a Matrix, pur con un tocco fellininano, fra il concettuale e il fantascientifico, non di particolare successo comunque».
Però scelse di lavorare tra il lusso e la tecnologia.
«Sono un negoziante e allo stesso tempo una persona dell’entertainment. Basta vedere quello che facciamo con i nostri contenuti, si va dall’articolo sulla rivista cartacea Porter al video di Natale. Sono sempre stato attento ai media. La gente tende a inserirmi nella casella dell’uomo d’azienda. In realtà, anche se passa sempre in secondo piano, nella mia testa la parte creativa è talvolta preponderante».
A proposito di film. Cosa ha visto di interessante ultimamente?
«C’era una volta a Hollywood. Bellissimo il finale, Tarantino si è rivelato il solito genio. Poi mi sono piaciuti i costumi che tra l’altro sono stati curati da Arianne Philips, un’amica. È stata lei a curare su Yoox una selezione di capi in occasione del restauro di Amarcord».
Philips, la stylist di Madonna?
«Sì. L’ho incontrata due settimane fa in California, in occasione del Tech Live, l’evento del Wall Street Journal dedicato alla tecnologia. Alla cena dove – guarda un po’ – c’era anche la Walt Disney».
Per la legge del contrappasso
«C’era pure Bob Iger, il mitico ceo che acquistò la Pixar di Jobs».
Gli ha raccontato la questione del curriculum nel cestino?
«Nel vederlo, ammetto che la mente è andata a quel momento, ma non ne ho parlato. Sarebbe stato troppo malinconico. Avevo poi cose più importanti da chiedergli».
Cene con Demi Moore, con i guru della Silicon e delle aziende top del mondo. Familiarità con i Reali d’Inghilterra. Che rapporto ha con la mondanità?
«Sono molto poco mondano. Orientativamente preferisco cenare a casa. Ciò non toglie che, vuoi per lavoro, vuoi per un effettivo interesse, mi piaccia stare con la gente. Però non riuscirei ad avere un vita in cui mi venisse richiesto di intrattenere gente tutti giorni, tutte le vacanze Io seguo ciò che veramente mi interessa, cosa che considero un lusso».
Una riservatezza che ci ricorda un altro grande italiano, Giorgio Armani.
«Un gigante rispetto a me. Armani è stato uno dei primi a credere in Yoox. Nutro un grande rispetto nei suoi confronti, un rispetto che rasenta l’adorazione. È uno dei grandi, se non il più grande».
L’abbiamo vista con Marc Raibert della Boston Dynamics. Geniale, vero. Ma sempre con quelle camicie hawaiane, anche a Boston.
«È il suo marchio di fabbrica, ma gli ho detto: Perché non provi ad andare su Yoox e Mr Porter? Sicuramente troverai qualcosa adatto ai tuoi gusti».
Dopo l’esame di Stato, lascia Ravenna per Milano bypassando la più vicina Bologna. Ambizioso.
«Tutti i miei amici avevano scelto Bologna, quindi per me fu un salto quantico: il provinciale che finisce nella grande città. Volevo porre le basi per diventare un buon imprenditore e mi sembrava che la Bocconi fosse l’università più titolata a farlo. Si aggiunga che mi attraeva l’idea di stare in una metropoli. Ero un ragazzo studioso, laureato con lode in quattro anni, e tuttavia ho vissuto intensamente la città, andando a concerti, mostre, feste. Volevo assorbire tutto, non volevo limitarmi a una crescita accademica».
Lo stesso salto l’ha replicato con New York.
«A un certo punto, a Milano mi sentivo perfettamente a mio agio. Era quindi arrivato il momento di pensare al prossimo passo. E dove potevo vedere ancora di più come gira il mondo se non a New York? Volevo imparare dalla città, comprendere le dinamiche del retail, la filosofia dei negozi. Quindi Columbia University e casa a Soho, a Manhattan».
Come arrivava a Yoox?
«Alla Columbia mi ero già inventato un business plan per il corso di imprenditorialità. Avevo ideato Mediterranea: uno slow food in un ambiente di fast food. Ma presto scoprii che non era questa la passione della mia vita. A quel punto feci un esame della mia italianità e conclusi: se non è food è fashion. Ho deciso di partire dall’italianità, da dove siamo più competitivi, senza trascurare che facendo leva su questo, sarei potuto rientrare in Italia».
Perché se lei fosse rimasto negli Usa Yoox non sarebbe nata?
«Proprio così, e per una serie di ragioni, per mancanza di vicinanza culturale e della sensibilità per capire il cliente, per la diversità della lingua. In questo senso, l’Italia ha giocato un ruolo positivo».
E sul fronte digitale?
«Qui l’Italia sconta il problema del piccolo. E lo dimostra il fatto che Yoox net à porter è l’unico unicorno del nostro Paese e che ai forum della Silicon non vi sono italiani salvo me. La cosa mi fa tristezza».
Qual è il problema?
«Partirei dall’accesso ai capitali. Yoox venne lanciata con 20 milioni di euro. Ora nella Silicon si parte da un minimo di 20 miliardi. Io ho avuto dalla mia parte la fortuna, la bravura e il timing giusto: essendo il primo, sono bastati i soldi. Ma le nozze coi fichi secchi non si fanno nel digitale. La tecnologia è la grande rivoluzione, lì stanno convergendo tutti i capitali. Purtroppo in Italia non c’è la cultura del venture capital e senza grossi capitali si rimane piccoli. Un grosso limite».
Fu determinante l’incontro con Elserino Piol. Corretto?
«Quando iniziai, c’erano quattro gatti e l’unico venture capitalist in gamba era proprio Elserino. Fu un signore elegantissimo con me, comprese all’istante l’opportunità».
Siete ancora in contatto?
«Sono andato a trovarlo tre settimane fa. Ho portato mia figlia perché si era incuriosita sentendo raccontare la storia di papà che bussa a varie porte che rimangono chiuse, mentre Piol decide di scommettere. È sempre vispissimo. Compirà 88 anni il prossimo 7 dicembre».
Che suggerimento dà ai giovani «startupper»?
«Non pensare solo all’Italia. O meglio. L’Italia può essere un punto di forza, ma non è l’unico mercato di sbocco».
Torniamo al limite italiano del «piccolo è bello».
«Il piccolo fatica, è fragile. Un’azienda grande è più inattaccabile, la dimensione è determinante per la sopravvivenza. Di Yoox avevo il 100%, dopo l’ampliamento sono arrivato al 4% perché è meglio avere il 4% di una grande azienda leader nel mondo che il 100% di un qualcosa di piccolo. Ma questa cosa non appartiene alla cultura del capitalismo italiano che ambisce al controllo del 51% e si basa sulla famiglia. Un approccio che sul digital non funziona».
In che direzione andrà lo shopping nei prossimi cinque anni?
«Cinque? Facciamo tre. L’orizzonte massimo sul digitale è il triennio. Noi premiamo l’acceleratore su tutto ciò che è mobile, quindi iPhone (iOS) e Android. Facciamo più di un miliardo di dollari di vendite via mobile. Siamo riusciti a vendere orologi da 140mila dollari via Whatsapp. Tramite whatsapp, ho addirittura concluso la joint venture con il nostro partner Alabbar».
Mohamed Alabbar, il proprietario del Dubai Mall?
«Sì. Nella fase finale i due team si erano arenati, allora siamo intervenuti noi e abbiamo concluso».
Che tipo di famiglia è stata la sua? Qual era la parola d’ordine in casa Marchetti?
«Onestà. Quando uscivo di casa, mamma non faceva altro che ripetere: sii onesto. A un certo punto non ne potevo più, ma ho poi compreso che certi valori assimilati durante l’infanzia rimangono per sempre. Papà era un lavoratore indefesso, era capo magazziniere alla Fiat di Ravenna, non era Marchionne per dire, tuttavia interpretava il proprio lavoro con una serietà mostruosa. Capitava che a Natale ci portasse in montagna ma lui rientrasse subito per fare l’inventario. È scomparso due anni fa. Al funerale ho incontrato i suoi ex colleghi, e mi hanno raccontato storie che non conoscevo e modi di fare in cui mi rispecchio, e non me ne ero mai reso conto».
Per esempio?
«Mi hanno spiegato che difendeva sempre le persone che lavoravano nella sua squadra. Si prendeva le colpe lasciando i meriti li agli altri. Io stesso difendo a spada tratta chi lavora con me, con gli azionisti sono io a fare mediazioni e negoziazioni per i bonus di fine anno. Quando le cose non funzionano è colpa mia, quando vanno bene dico che è la squadra».