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 2019  novembre 25 Lunedì calendario

Cronaca dell’omicidio di Umberto I

Il sole non è ancora tramontato sulla stazione di Modane, Francia. Sono le sette di sera di una bella giornata di piena estate: è il 29 luglio del 1900. Un gruppo di operai italiani aspetta il treno che li riporterà in patria. Qualche bicchiere, qualche chiacchiera con gli altri viaggiatori. Ma da un tavolo uno sconosciuto rivolge agli emigrati una frase che fa loro gelare il sangue: «Andando là ne troverete delle brutte. Hanno appena ammazzato il vostro re». Il loro re: Umberto I di Savoia, già scampato a due attentati. L’annuncio del regicidio lascia di sasso i quattro o cinque del gruppetto. Il nuovo secolo si apre con un delitto che cambierà la storia d’Italia.
C’è un problema. Alle sette di sera, mentre la sua uccisione viene annunciata agli emigranti di Modane, Umberto è ancora vivo, in piena e allegra salute, nella Villa Reale all’interno del Parco di Monza. La festa annuale della Società Ginnastica Monzese, che è stato invitato a onorare della sua presenza, è ancora in pieno svolgimento. Il re aveva promesso di fare visita nel pomeriggio, poi il suo aiutante di campo, il generale Avogadro, ha annunciato il cambio di programma. Il sovrano farà la sua apparizione più tardi, quando l’afa estiva si sarà attenuata. E lì troverà ad attenderlo le tre precisissime pallottole dell’anarchico Bresci: tutte mortali.
Alle sette di sera il re è vivo: eppure a Modane lo danno già per morto. E non sono i soli. Da almeno un mese, dai due lati dell’Atlantico, nelle carceri, nei circoli anarchici, tra gli emigrati, si dà per certo che Umberto verrà ammazzato. Ad andare in scena davvero, alle undici di sera del 29 luglio, è la cronaca di un regicidio annunciato.
LE CARTE E LE CREPE
Oggi le carte del processo – anzi: dei processi – seguiti alla morte del re sono sepolte in sette faldoni all’archivio di Stato di Milano. Ed è interessante leggerle con gli occhi di oggi, come se fossero i file di un processo contemporaneo, con gli schemi della moderna cronaca giudiziaria che va alla caccia delle incongruenze e dei depistaggi. Se Umberto fosse stato ammazzato oggi, le carte direbbero che il re si poteva salvare. E i talk show impazzirebbero alla ricerca del livello occulto della tragedia: chi ha lasciato che il re fosse assassinato?
Lo spunto per tentare questa rilettura è un doppio anniversario, caduto questo mese a distanza ravvicinata. Il 10 novembre 1869, 150 anni fa, nasce a Prato, in una modesta abitazione, figlio dell’operaio Gaspare Bresci, colui che ammazzerà Umberto: Gaetano Bresci. Una manciata di ore dopo, l’11 novembre, a Napoli, in ben altri agi nasce l’uomo che le revolverate di Bresci faranno bruscamente salire al trono: Vittorio Emanuele, figlio di Umberto di Savoia e di sua moglie Margherita. Per trent’anni, le storie dei due coetanei si dividono: per ricongiungersi drammaticamente la sera dell’agguato di Monza. Mentre Bresci viene arrestato, il principe Vittorio Emanuele diventa Re d’Italia. Le carte del processo a Bresci tradiscono la frettolosità dell’avvicendamento: sui fogli intestati di Procure e tribunali, il nome del nuovo re viene incollato sopra quello del padre defunto. Sono migliaia di fogli manoscritti, a volte difficili da decifrare. Ma il contesto ne esce chiaro: è il contesto di un complotto avvenuto quasi alla luce del sole, seguito pressoché in diretta da infiltrati e poliziotti, eppure arrivato al suo clamoroso epilogo. 
LA BANDA DEGLI ANARCHICI
La scena che si svolge alla stazione di Modane, «hanno appena ammazzato il vostro re», è la più inquietante, per la sua coincidenza quasi perfetta col delitto. La fonte, d’altronde, è più che affidabile: a raccontarla ai carabinieri è il parroco di Savigliano, don Giuseppe De Lorenzi, che poche ore dopo aveva incontrato sul treno per Torino il gruppetto degli italiani. Ma di premonizioni difficilmente spiegabili pullulano le carte del processo. L’8 agosto il prefetto di Udine scrive al ministro degli Interni che «giunse a mezzo postale a Cantoni Antonio fu Luigi, contadino» una lettera di suo suocero Giuseppe Riolo, emigrato a San Paolo; «con la medesima, datata 30 giugno, si chiede se effettivamente sia vera la ferale notizia» dell’assassinio di Umberto: «verificatosi purtroppo – scrive il prefetto – dopo 28 giorni». E un po’ da ogni parte del paese arrivano altre segnalazioni di confidenze ricevute sul delitto imminente.
Potrebbe trattarsi – e forse in buona parte si tratta – di ricordi falsati o ingigantiti, dove una chiacchiera da osteria o l’auspicio di un repubblicano vengono trasformati in conoscenza precisa dei piani. Ma tutti convergono a rafforzare negli inquirenti la convinzione che il regicidio non sia stato l’impresa di un solitario bensì, come scrive il sottoprefetto di Biella inviando in Procura il verbale del parroco di Savigliano, «un complotto di cui alcuni furono gli esecutori, ed altri i complici ed altri ancora i conniventi». È alla caccia dei complici che si scatena la macchina investigativa e giudiziaria, con una efficienza – va detto – ammirevole, soprattutto se paragonata ai mezzi dell’epoca. Il 4 agosto, a sei giorni dal delitto, gli inquirenti hanno già in mano l’elenco di tutti gli italiani presenti insieme a Bresci sul piroscafo La Guascogna, partito da New York e approdato il 26 maggio a Le Havre. In quell’elenco le indagini pescheranno a mani basse. All’arresto di Bresci, catturato in flagrante, si aggiungono in una settimana altri 34 arresti di presunti complici. Si tratta solo in parte di arresti fatti a casaccio, pescando tra coloro che a botta calda avevano incautamente festeggiato la notizia del regicidio. In manette finiscono anche uomini (e donne) che con Bresci avevano avuto effettivamente contatti: a bordo del transatlantico, o nei sessantatré giorni trascorsi in Italia prima di andare all’appuntamento con la sua vittima. 
A tirare le fila dell’inchiesta, un magistrato di 43 anni: si chiama Aristo Mortara, in servizio alla sezione d’accusa della Corte d’appello di Milano. È un giurista raffinato, figlio del grande Marco Mortara. Si butta a capofitto nell’inchiesta sul regicidio, con entusiasmo da inquisitore. È Mortara a dare le direttive ai carabinieri e alle prefetture. Mortara interroga di persona anche comprimari, arrestati di secondo piano, testimoni marginali. Soprattutto, è lui a interrogare per tre volte, nel carcere di San Vittore, l’assassino del Re: nei verbali si intravede una confidenza crescente, un dialogo sempre più franco tra accusato e accusatore. Ma una cosa Bresci ha tenuto a chiarirla fin dal primo verbale, reso un’ora dopo il delitto ai carabinieri di Monza: «Ho commesso questo fatto di mia iniziativa, e qualunque ricerca si farà al riguardo nulla si potrà scoprire perché non esiste alcun complotto né ho complici».
LE PISTOLE ERANO TRE
Invece c’erano sia il complotto che i complici: e la sera del 29 luglio ad attendere Umberto a Monza c’erano almeno tre rivoltelle. Una era nella tasca di Bresci, ed è quella che farà fuoco. La seconda è nelle mani dell’uomo che i testimoni indicano come «il biondino»: Luigi Granotti, amico e compagno di Bresci. La terza salta fuori in un verbale datato 30 luglio dei carabinieri di Monza, che raccontano come «Saini Gerardo fu Luigi, bidello della Società ginnastica monzese», si presenti per consegnare «una rivoltella di corta misura, carica di sei colpi, rinvenuta nella tribuna pubblica esistente nel campo ove venne commesso il regicidio». 
Erano almeno in tre, dunque, ad aspettare Umberto. Nelle carte del processo, il progetto ha un luogo d’origine preciso: Paterson, nel Ney Jersey, dove la colonia anarchica di origine italiana è forte ed organizzata. Lì Bresci è di casa, lì si è fatto un nome salvando da un aggressore il vecchio leader, Errico Malatesta. E lì si discute da tempo l’organizzazione dell’agguato. Al punto che tale Sperandio Cariboni, sorteggiato per andare in Italia a eseguire il delitto, si suicida per non partire. Saranno Bresci e gli altri a prendere il suo posto.
La polizia americana, dicono le carte del processo, sapeva tutto. Nei faldoni ingialliti, salta fuori un appunto firmato dal capitano George McClusky datato 30 agosto, che ricostruisce per filo e per segno le vicende interne del circolo di Paterson, che era infiltrato dalla polizia locale. C’è dentro tutto: e non sono certo informazioni che McClusky può avere scoperto nei pochi giorni passati dal delitto. Sono le stesse informazioni che un giornalista italiano di stanza in America, Giuseppe Raggio, scrive il 9 agosto al ministero degli Interni, raccontando di come nel circolo di Paterson esistesse un «Comitato d’azione» che si occupava di preparare l’attentato: «Non posso affermare se Bresci fu sorteggiato o per gradassata siasi offerto». Di tutto, Raggio dice di avere informato Joe Petrosino, il poliziotto italo-americano che verrà ucciso a Palermo nel 1909. Ma cosa fa Petrosino di quella segnalazione? Agli atti, non c’è traccia di sue iniziative.
Il 29 agosto Bresci viene condannato all’ergastolo: morirà dieci mesi dopo, in circostanze oscure, nel carcere di Santo Stefano. L’inchiesta bis sui complici va avanti nei confronti di undici persone. Il 3 agosto 1901 il procuratore generale chiede l’archiviazione per dieci indagati, e il processo solo per Luigi Granotti, l’amico che passò con Bresci gli ultimi giorni prima del delitto, tra Milano e Monza. Il 26 novembre 1901 Granotti viene condannato all’ergastolo in contumacia, perché di lui non si è mai trovata traccia. L’ultima apparizione l’ha fatta sulle montagne di Gressoney, il 2 agosto, tre giorni dopo il regicidio. Ha noleggiato per 25 lire una guida per farsi portare in Svizzera. Al cugino che lo accompagnava ha fatto vedere un revolver: era quello che doveva far fuoco a Monza se Bresci avesse fallito. Il cugino è inorridito, la pistola è volata nelle acque del Lys. Sparisce il revolver, sparisce per sempre Gianotti, sparisce l’ultima speranza di sapere la verità sulla morte annunciata di un re.