il Giornale, 25 novembre 2019
Il costo delle merci online restituite dagli Usa
È il circolo vizioso del commercio online. Le aziende che offrono il reso gratuito aumentano le proprie vendite del 457 per cento (fonte The Journal of Marketing). Ma si tratta di vendite in parte fittizie. Perché la possibilità di ripensarci e restituire a domicilio quello che si è acquistato e che si è trovato fallato, di misura diversa da quella desiderata o semplicemente differente dalle aspettative spinge lo shopper online ad acquistare senza farsi troppi problemi. Anzi, come spiegano i profili dei restituroi seriali disegnati dalla rivista Women’s Wear Daily alcuni shopping addicted ne fanno una vera e propria strategia di consumo: acquistano capi di tutte le misure e i colori e se li provano a casa, oppure addirittura acquistano un capo per usarlo una sera speciale o per fotografarsi e postare sui social e poi restituiscono. È stato bello, finché è durato.
Secondo un report di Appriss Retail nel 2018 il business dei resi soltanto negli Usa è stato di 369 miliardi di dollari e nel 2020 secondo GreenBiz dovrebbe toccare quota 550 miliardi, con un aumento del 75 per cento in appena quattro anni. Il 10 per cento delle merci acquistate viene poi restituita. Per il resto del mondo non ci sono dati certi ma si capisce che il ripensamento commerciale sia a livello globale un business a 12 zeri.
Naturalmente questa disinvolta strategia di marketing ha un costo in termini economici per le aziende, ma soprattutto ambientali per il pianeta. Immaginate quanta carta e quanta plastica venga sprecata ogni anno per packaging inutili. E pensate a quante migliaia di aerei, tir e container viaggino ogni giorno trasportando avanti e indietro merci vendute e acquistate solo per lo spazio di poche ore. Si calcola (fonte Fast Company) che ogni anno venga abbattuto un miliardo di alberi solo per confezionare i 165 miliardi di pacchi spediti in giro per gli Stati Uniti. E che l’industria del «fast fashion» emetta il 5 per cento delle emissioni globali di CO2, creando in 48 ore scarti che occorrono 12 anni per riciclare. Il tutto per consentire a una instagrammer di indossare una sola volta quella gonna per farsi un selfie.
Naturalmente nessuno vuole demonizzare il «fast fashion», quella tendenza all’acquisto sfrenato e vagamente compulsivo di abiti sul cui acquisto decenni fa si rifletteva per settimane. Ma esistono per fortuna delle alternative: come il «fashion renting», il noleggio di abiti per occasioni speciali secondo la formula del pay-per-use, che ha in Italia una delle piattaforme di maggior successo in DressYouCan, la cui fondatrice, Caterina Maestro, pensa che la nuova frontiera sia il noleggio «dei fondi di magazzino, che potrebbe diminuire il volume dei rifiuti tessili, dei quali attualmente solo l’1 per cento è veramente riciclato». E l’ascesa dell’usato, il cui valore secondo The Telegraph dovrebbe superare quello del «fast fashion» entro il 2028. Un mercatino ci salverà.