L’Economia, 25 novembre 2019
Intervista a Kretinsky, signore dell’elettricità
Nato a Brno in Repubblica Ceca 44 anni fa, Daniel Kretinsky secondo Forbes vale oggi un patrimonio di 2,9 miliardi di dollari. Il suo gruppo, Eph, è il sesto produttore di elettricità europeo, impiega circa 25 mila persone e nell’energia fa due miliardi di euro di margini l’anno. È il maggior azionista della catena di Cash and Carry Metro, ha il 5% in un altro player della grande distribuzione come Casino, il 4% in Prosiebensat1 e, tra le altre partecipazioni nei media come Elle, anche una quota di minoranza in Le Monde. In Italia, spiega Marco Arcelli (ex Enel, ora responsabile Europe M&A ) «da quando siamo entrati nel 2015 abbiamo investito oltre 200 milioni di euro in rinnovabili e oggi copriamo il fabbisogno di circa un milione di persone». Da giovane mitteleuropeo Kretinsky non lesina le sue critiche alla politica continentale: «In Europa, e in Europa occidentale – dice – manca una chiara strategia economica e industriale. Dell’industria manifatturiera non parla quasi nessuno. Temo che senza cambiamenti andremo incontro a tempi difficili».
Però crede ancora nell’Italia visto che avete in corso un’offerta per Sorgenia.
«Malgrado le molte incertezze credo nella grande capacità dell’Italia di rimanere un Paese affidabile, attento a non fare passi destabilizzanti. L’Italia ha dimostrato che è capace di affrontare i problemi nel modo giusto, senza commettere grandi errori o dare luogo a rivoluzioni senza successo. Ecco, magari non proprio nel modo più veloce».
Il caso ArcelorMittal-Taranto che impressione le sta facendo?
«Non l’ho seguito nei dettagli, ma oggi ogni grande azienda ha davanti a sé l’opportunità di investire in più aree. Se hai ad esempio sul tavolo l’opportunità di investire in una centrale a gas in Italia o nel Regno Unito, in Irlanda o in Germania devi fare del benchmarking. Non si può fare tutto e bisogna decidere sulla base dei fondamentali del mercato, del rischio politico, delle prospettive future. Ogni segnale mandato da un governo può essere decisivo. Ma, ripeto, se guardo retrospettivamente all’Italia le soluzioni che il Paese ha adottato fino ad oggi sono state corrette e coerenti».
Come nel caso del capacity market elettrico, il sistema che prevede di remunerare gli impianti che assicurano la disponibilità di energia?
«Esatto, è arrivato con cinque anni di ritardo ma alla fine è arrivato, completando il mercato anche nell’ottica della transizione energetica: il giusto segnale delle intenzioni del Paese».
Quanto grandi diventereste in Italia acquistando Sorgenia?
«Ciò che posso dire è che presenteremo di sicuro con A2A un’offerta molto seria. Come investitori abbiamo un track record affidabile e siamo competitivi. Da un lato con un portafoglio più grande saremmo ancora più competitivi sul fronte dei costi e dall’altro avremmo più margine di manovra anche per costruire una nuova e più efficiente centrale a ciclo combinato, quando e se l’Italia ne avrà bisogno. Non sono molti oggi coloro che sono disposti a prendersi questo rischio».
E in caso di insuccesso?
«Non lasceremo l’Italia, non vogliamo fare ricatti. In casi come questi se il processo di gara è stato professionale e trasparente e non vinci allora è stata solo colpa tua. Certo, se invece la sensazione fosse diversa sarebbe una condizione frustrante».
In modo un po’ grossolano l’accordo con A2A prevede le centrali a voi e i clienti a loro?
«In linea di massima il progetto è quello».
Avete in generale un problema con le vostre centrali a carbone e lignite in giro per l’Europa e uno in particolare in Sardegna con Fiumesanto. Che volete fare?
«Intanto sgombriamo il campo dalla narrativa che Eph sia un’azienda del carbone. Il carbone vale il 7% dei nostri profitti e flussi di cassa. Detto questo, in diversi Paesi d’Europa carbone e lignite sono necessari. Repubblica Ceca, Polonia, Grecia. In Germania il 37% dell’elettricità viene dal carbone, una quota che in qualche giorno arriva al 50%. Se dico no al carbone dico no a metà della popolazione tedesca o alla gente della Sardegna. Non è la nostra filosofia, sono impianti necessari e non si possono chiudere dall’oggi al domani. Se si vuole però trovare una soluzione siamo pronti, ne abbiamo diverse e le abbiamo già implementate su 4.000 megawatt di capacità in Europa, come la conversione alle biomasse».
E per la Sardegna?
«Alle autorità italiane stiamo dicendo proprio questo: se vogliono decarbonizzare pienamente e velocemente l’isola possiamo convertire Fiumesanto a biomasse, come abbiamo fatto nel Regno Unito. Sarebbero sufficienti due anni e si incrementerebbe l’attività produttiva locale. Se si decide di metanizzare l’isola siamo pronti ad offrire soluzioni a gas. L’unico progetto che non credo possa fornire la sicurezza piena e che ridurrebbe l’attività economica penso sia quello del nuovo cavo con il continente».
Nel comparto media che cosa volete fare e che rapporti ci sono con Mediaset dopo che è salita al 15% di Prosieben?
«Prosieben è una grande azienda leader nella televisione in Germania e genera valori economici rilevanti. L’ingresso ci dà la possibilità di entrare in relazione più stretta e di pensare a che cosa fare in futuro. Ora però non è ancora il momento di decisioni: siamo contenti di essere lì, il management ha una buona visione e noi vogliamo cooperare con ogni azionista per il futuro di Prosieben».
Ma ci sono contatti con Mediaset? Vi siete visti?
«Non commento sugli incontri che faccio o non faccio. In Prosieben, Mediaset ha una quota elevata ma credo che per ora abbia priorità diverse e debba vedere che cosa succede nelle discussioni in corso con Vivendi».
Nella televisione generalista quale sarebbe la cosa giusta da fare?
«Non credo che nel general broadcasting, a differenza dello streaming, un consolidamento sia così importante, perché darebbe benefici limitati visto che tra nazioni diverse le sinergie sono ridotte. Un fatto che non ha nulla a che fare con la posizione di Mediaset in Prosieben, che per noi è un azionista competente. Al momento non riporrei troppe speranze in un consolidamento nella tv generalista. Ci sarebbe forse più logica a farlo nella stampa».
Che intende dire? Lei ha forti interessi anche nella carta stampata.
«Non mi riferisco ai contenuti della carta stampata, ma al fatto che il settore non è sufficientemente forte per investire nelle tecnologie digitali dalle quali dipende il suo futuro. La stampa è indietro nella capacità di sviluppare le soluzioni tecnologiche che le servirebbero».
Pensa ad accordi o iniziative comuni tra gruppi editoriali?
«La questione principale per la stampa oggi riguarda le nuove regole sulle big tech, che sottraggono valore alle media company. Una ridefinizione è necessaria. Ma l’altra è relativa proprio all’infrastruttura tecnologica che è carente».
Il suo gruppo, Eph, è cresciuto rapidamente, è relativamente poco conosciuto e ogni volta che si lancia in nuove operazioni si risolleva la questione delle vostre origini.
«Guardi, avevo 24 anni quando sono entrato in un piccolo gruppo nato durante la prima fase delle privatizzazioni e che facendo trading aveva accumulato fondi per 8 milioni di euro. Li ho convinti a prestarmi 600 mila euro per il mio primo investimento, un’azienda di lattex, dai guanti chirurgici ai condom. Ecco, da questo momento posso rendere conto di ogni singolo euro investito».
Nel calcio lei è proprietario dello Sparta Praga, e spesso le vengono attribuiti appetiti su club italiani. È vero che ha fatto offerte per Milan e Roma?
«Investire nel calcio italiano per me sarebbe impossibile. Intanto perché abbiamo molto lavoro da fare con lo Sparta, e non sarebbe il momento giusto. Ma sono le regole in vigore che impediscono di avere una quota di controllo in due club che giocano competizioni europee. Quello che però posso dirle (ride, ndr) è che se mai dovessi investire in un altro club sarebbe italiano. Non posso dirle quale, ma sarebbe italiano».