Corriere della Sera, 25 novembre 2019
Le lettere tra Contini e l’Einaudi
Lettere per una nuova cultura. La corrispondenza tra Gianfranco Contini e la casa editrice Einaudi, pubblicata dalle Edizioni del Galluzzo a cura di Maria Villano, si meritava questo gran titolo. Un titolo che dice che cosa fu, nel bene e nel meno bene, il rapporto tra il maggior filologo italiano, maestro di generazioni di filologi, e l’editore torinese: non solo Giulio in persona, ma il gruppo di lavoro che si raccoglieva intorno a lui. A cominciare da Santorre Debenedetti e Leone Ginzburg, che con Bobbio, Mila, Pavese furono tra i fondatori. Debenedetti fu anche lui filologo, maestro di Contini, studioso della letteratura delle origini e di Ariosto; Ginzburg fu suo allievo all’Università di Torino, traduttore e slavista, redattore capo einaudiano. A Ginzburg si deve la prima idea della Nuova Raccolta di Classici Italiani Annotati, la collana che sarà curata dallo stesso Debenedetti e poi da Contini (infine da Cesare Segre).
Al venticinquenne Contini l’editore propone, nel 1937 (la prima lettera è datata 2 luglio), la curatela delle Rime di Dante, che inaugurerà un sodalizio destinato a durare, tra alti e bassi, per oltre cinquant’anni. La seconda lettera del carteggio, siglata da Ginzburg il 27 giugno 1938, esprime una «cordiale diffidenza» rispetto all’eccessiva allusività, se non oscurità, della prosa continiana. Da qui la richiesta di rileggere e risistemare l’introduzione alla luce di «alcune avvertenze che riguardano più i lettori del Suo acuto saggio, che non lo stesso Suo scritto». È un abile gioco di parole che all’orecchio di Contini deve suonare alquanto grave. La preoccupazione è che allo studente universitario, cui la collana è rivolta, l’accavallarsi di richiami (al romanticismo, alla sacra rappresentazione, alla chanson de geste, a Mallarmé, Gide, Cocteau…) possa apparire eccessivo e complicato: dunque, «perché non tentare di dire le stesse cose con più rispetto dell’ignoranza di quel lettore-tipo, e cioè con assai meno erudizione?», esorta Ginzburg.
Tra gli otto punti in cui si articola la lettera, spicca il consiglio di togliere ogni riferimento a Ezra Pound, definito un «bizzarro interprete» e certamente avversato soprattutto per ragioni ideologiche. Ma in generale «la parte “elegante” dei riferimenti va certo abolita», e Contini accoglie le sollecitazioni pur confessando poi che «hanno messo a durissima prova» la sua pazienza. La terza lettera, ancora a lavori in corso, è del settembre 1939 e contesta al curatore la perifrasi che allude ad Attilio Momigliano quale autore di una nuova analisi metrica, chiedendogli di esplicitarne il nome: non è escluso che la mancata chiarezza fosse una cautela dovuta alle leggi razziali e va da sé che né Santorre Debenedetti né Leone Ginzburg erano disposti ad accogliere la censura.
Le note di Maria Villano chiariscono puntualmente i passaggi delle lettere, e l’Introduzione mette in evidenza le varie fasi di un rapporto tutt’altro che pacifico, che si distende lungo circa settecento documenti epistolari (450 quelli inviati da Torino, 231 quelli scritti da Contini). La prima fase coincide con il lavoro di lima sul commento dantesco, che il 4 dicembre 1939 inaugura la Nuova Raccolta debenedettiana con generale entusiasmo e con buoni risultati di vendita al punto che viene immediatamente programmata una seconda edizione. Sarà Ginzburg, dal confino di Pizzoli, in Abruzzo, a suggerire l’idea di affidare un nuovo commento a Contini («io sono un fautore di Contini, anche se lui una volta mi ha dato (pulitamente) dell’asino», scriverà). Sarà Einaudi a pensare alla Commedia, ma non trovando tutti d’accordo in casa editrice il progetto è destinato a sfumare.
La prima lettera di Contini è dell’estate 1945 ed è indirizzata a Pavese da Friburgo, dove lo studioso ricopre la cattedra di Filologia romanza dall’ottobre 1938 per rimanervi fino al 1952. Dalla Svizzera annuncia che avrà la possibilità di «scrivere di letteratura italiana su grandi riviste francesi» e chiede di essere messo al corrente sulle uscite: la sua attenzione si concentra sugli ultimi titoli di Pavese e di Arrigo Benedetti, anche se in quegli anni non sempre Contini apprezza le prove pavesiane. Villano fa notare che, volendo, un canone-Contini della letteratura contemporanea lo si può desumere dai suoi scritti-«panorama» e dagli articoli militanti consegnati a riviste straniere: e i nomi sono quelli di Saba, Palazzeschi, Campana, Cardarelli, Ungaretti, Bacchelli e Montale. Poco sarebbe andato a buon fine delle prospettate antologie e traduzioni francesi di autori italiani che l’editore «Aux Portes de France» aveva affidato a Contini. Fa eccezione la celebre silloge Italie magique, del 1946.
È un gran promotore del proprio lavoro, Contini, capillare nella diffusione del suo commento dantesco, al punto da riuscire a guadagnarsi un buon numero di recensioni e segnalazioni anche per la seconda edizione. Maria Villano ha il pregio di inserire la figura di Contini dentro le linee programmatiche della casa editrice in un momento-chiave come quello che segue alla morte di Pavese, avvenuta nell’agosto 1950. Fatto sta che l’«arruolamento» di Contini segnala una vitalità progettuale che va ben al di là della abituale visione di un’impresa ispirata al dogmatismo ideologico comunista.
Sarà Giulio Bollati, il normalista arrivato venticinquenne all’Einaudi nel 1949, a guidare la fase post-Pavese ma nel solco dell’eredità di Ginzburg e Giaime Pintor (vittime della violenza fascista). E sarà proprio Bollati il nuovo, seduttivo, interlocutore di Contini, al quale propone un commento del Canzoniere di Petrarca e la cura di un’antologia di saggi di Leo Spitzer, il grande maestro austriaco di critica stilistica. Il primo progetto, che «sarebbe da far subito», andrà in porto quindici anni dopo con il contributo determinante di Daniele Ponchiroli, l’ex normalista e partigiano approdato in casa editrice come caporedattore nel settembre 1953 per diventare il motore della macchina einaudiana e il fidato referente interno del filologo, suo confidente e amico. Il programma spitzeriano si realizzerà solo nel 1959 firmato da Pietro Citati, ma su basi continiane e in contrapposizione con l’assetto pensato per Laterza da Croce. La critica stilistica di Spitzer veniva immaginata da Contini, con «impazienza», proprio quale tappa fondamentale nel superamento del verbo crociano, dunque come grimaldello per aprire l’Italia verso una dimensione europea.
Contini era una autentica star, ricercata e ambita. Benché i suoi cantieri editoriali aperti fossero parecchi (con la Ricciardi di Mattioli, con la Nuova Italia, con Tallone), il filologo stabilì presso l’Einaudi una militanza «organica» nella chiave innovativa che Bollati intravide subito: si trattava di mettere a frutto con nuove edizioni la scuola di giovani filologi, eredi di Contini, ma anche di portare innanzi le nuove metodologie critiche.
In questa prospettiva nel 1953 fu assegnata a Contini la direzione della Raccolta che era stata di Debenedetti, ma se i progetti erano grandiosi e del tutto innovativi, i risultati non furono all’altezza delle premesse. Ci si ritrovò a «cortesemente colluttare» sulla proporzione tra autori massimi e mediomassimi (voluti dall’editore) e quelli promossi da Contini. La distinzione tra «massimo» e «minore» («nella gerarchia riconosciuta dal pubblico») è per Contini «poco più che una facezia». Distribuiti in un decennio, usciranno, a fatica, il Giovan Battista Marino curato da Giovanni Pozzi (1960), il teatro di Carlo Maria Maggi curato da Dante Isella (1964), il Bono Giamboni curato da Cesare Segre (1968). Dopo Dante, Campanella e Boccaccio, scelti dal precedente direttore, la «virata» di Contini verso i cosiddetti minori resta comunque ben visibile.
Ben altra delusione sarà il progetto di una collana linguistica che doveva superare quell’«impressionismo da dilettanti» tipico della critica crociana in direzione di una veduta strutturalista allora pressoché ignota in Italia. L’accertamento verbale era un «progetto educativo» la cui sostanza, condivisa da Bollati e Ponchiroli, probabilmente sfuggiva all’editore. L’insieme della erigenda collana linguistica si proponeva come un’opera complessiva di seria divulgazione dal respiro europeo, con trattati e saggi di linguistica generale, di linguistica romanza, di stilistica, di grammatica storica, di strutturalismo, e con autori che già erano o che sarebbero divenuti i pilastri della disciplina, come Jakobson, Meillet, Martinet, Rohlfs, Hjelmslev, Benveniste, lo stesso Spitzer e altri. Per non dire di Saussure, che Contini propose già nel primo piano di collana, approvato dall’editore. Seguiranno «dolorose incomprensioni e aspri scontri» per le promesse disattese sia sul versante dei classici sia sul versante linguistico: quest’ultimo si risolverà nell’uscita di qualche titolo nelle collane preesistenti. Mentre Saussure passerà trionfalmente alle cure di Tullio De Mauro per l’editore Laterza. Occasioni mancate. Poche tracce del lavorio compiuto da Contini e da Ponchiroli rimangono nei verbali delle riunioni del mercoledì, evidenziando la disattenzione dei più. Nel maggio 1957 si realizza la frattura con l’editore. Che insiste per avere i commenti alle opere maggiori (i Promessi sposi a cura di Giovanni Nencioni, la Gerusalemme liberata a cura di Ezio Raimondi, un Foscolo a cura di Giuseppe De Robertis) e mette in coda i titoli su cui insiste Contini, che si dice «disposto ad accogliere lo scioglimento del nostro vincolo con effetto immediato».
«È evidente allora – scrive Villano – (…) che l’Europa cui pensa Contini si fonda su altre basi rispetto a quella cui mira l’editore». Se con gli anni Sessanta tramonta l’occasione di «continizzare» l’Einaudi, si assisterà presto all’einaudizzazione di Contini, che da «autore immaginario» diventa «autore effettivo». Intanto, darà un contributo determinante al Premio Internazionale degli Editori che a partire dal 1961 prevede che tredici editori di sette Paesi votino il miglior romanzo per pubblicarlo poi contemporaneamente nelle rispettive lingue. Si ritrovano per l’occasione intellettuali di origine varia – tra cui Contini con Vittorini, Calvino, Cases, Ripellino, Enzensberger, von Rezzori, Miller, Queneau, Bellow… (mai vista una giuria del genere!) – nell’isola spagnola di Formentor e poi a Salisburgo per discutere di letteratura. Il 1963 sarà l’anno di Gadda, che con il contributo dell’amico Gianfranco vince il Formentor e sarà anche l’anno in cui Contini, entrato nel consiglio editoriale dell’Einaudi, scrive la celebre prefazione alla Cognizione in cui individua il filone espressionista della letteratura italiana. L’insofferenza del filologo per le inadempienze dell’editore finisce comunque per esplodere nel 1965 con la rinuncia di Einaudi a pubblicare il lavoro di Fausta Garavini sulla letteratura dialettale della Francia meridionale, previsto nella collana «Studi e ricerche». Il malumore si accentua quando la casa editrice progetta la rivista «Strumenti critici» con quattro giovani «continiani» di ferro (Segre, Avalle, Isella, Corti) estromettendo il maestro. Siamo nel 1968 e dal 1970 cominceranno a uscire i volumi dei saggi firmati da Contini, a partire da Varianti e altra linguistica. Il pericolo di «cadaverizzazione», che lo stesso Contini ironicamente intravedeva nel riproporre in raccolta i suoi saggi già apparsi su rivista, sarà superato al punto che il filologo avrà una collana tutta sua («Opere di G.C.»), privilegio che era toccato a pochissimi altri autori, ma di interesse politico (Gramsci, Rosselli, Salvemini, Einaudi, Dorso, Gobetti). Sono gli anni vissuti con maggiore intensità, in cui il grande filologo poteva comunicare familiarmente alla «ghilda biancamana»: «Mi perseguita l’influenza e passo le mie giornate a latrare»; poteva annunciare di essere «in rapido passaggio per questa Beozia d’Italia in cui siamo con-beoti»; oppure lamentare l’inefficienza eterna delle Ferrovie dello Stato che «non avevano fomentato termicamente il mio viaggio notturno»…
Un’epoca si chiude con la partenza di Ponchiroli, che nel 1974 si ritira nella sua Viadana, lasciando «non un vuoto di potere, ma di tessuto connettivo», secondo lo stesso Einaudi. Nell’intraprendere con Rosanna Bettarini l’edizione «storica» dell’Opera in versi di Montale, recalcitrante per superstizione ma anche per la consapevolezza di non essere uno «scrittore di varianti» capace di offrire materia al critico degli scartafacci. In realtà quel monumento editoriale sarebbe poi uscito alla grande nel dicembre 1980, offrendosi come esempio unico di edizione filologica vivente l’autore. Impresa straordinaria che non basterà a ricucire del tutto gli strappi delle delusioni che condividerà con Antonio Cannistrà, altro filologo normalista che, grazie a Contini, farà il suo ingresso in via Biancamano nel 1981: anni di crisi profonda non solo economica in cui il Maestro, pur confidando che la «fedeltà alla Einaudi è stata fonte di amarezze», rimarrà comunque legato allo Struzzo.