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 2019  novembre 25 Lunedì calendario

Intervista a Jennifer Lee, regista di Frozen 2

La signora di Frozen ha l’aspetto minuto, una voce dolce e una massa di capelli resa ancora più indomabile dall’umidità. «A scuola, da bambina, avevo i ricci annodati e le magliette macchiate. Sono stata vittima di un bullismo che mi ha segnato profondamente » racconta, guardando negli occhi l’interlocutore. Oggi Jennifer Lee, 48 anni, decisamente più Anna che Elsa, è la donna più potente dell’animazione mondiale. Capo creativo della Disney e co-regista da Oscar per la saga delle due sorelle tra le nevi che sei anni fa divenne un fenomeno d’incassi (un miliardo e 276 milini di dollari) e merchandising. Ma Frozen 2 — Il segreto di Arendelle (nelle sale da mercoledì), già a 127 milioni di dollari nei primi tre giorni negli Usa, promette di andare lontano. Jennifer, jeans e giacca, è seduta tra il co-regista Chris Buck e il produttore Peter Del Vechio, felici di lasciarle la scena e la parola.
Elsa e Anna somigliano poco alle principesse delle favole e molto alle ragazze della realtà.
«Questo per noi è un elemento cruciale nel viaggio che è stato
Frozen . In Elsa e Anna ho cercato l’autenticità perché le ragazzine si potessero identificare, i ragazzini vi riconoscesero le amiche, le sorelle, le madri. Volevamo essere fedeli a come è una donna, anche nei dettagli quotidiani. Nel primo film avevano disegnato Anna, al risveglio, perfetta come una principessa, io dissi "non se ne parla, quando mi sveglio ho i capelli arruffati e la faccia stropicciata».
C’è chi ritiene che i personaggi maschili siano un po’ in disparte.
«È semplice: le protagoniste sono due ragazze, anche se ci sono uomini che le sostengono e sono felici di farlo. Di sicuro al fianco di mia figlia preferirei più un giovane come Kristoff che uno come Hans… In molti chiedevano un amore, maschile o femminile, per Elsa. Ci abbiamo riflettuto. Ma abbiamopensato che Elsa, come molti di noi, prima di pensare a stare con qualcuno deve trovare sé stessa. È questo il suo viaggio».
Anna ed Elsa sono un simbolo, ma anche lei ha una storia speciale.
«L’amore per l’animazione è iniziato prima che sapessi parlare.
Guardavo in tv il mondo Disney e disegnavo tutto il tempo. Allora pensavo che sarei diventata un’animatrice.In realtà non ero brava a disegnare ma a raccontare storie. Cenerentola era il mio idolo, con la sua capacità di sopportare le angherie della matrigna e delle sorellastre, anche quando venivo bullizzata a scuola. Ho sofferto molto quando, adulta, ho scoperto che anche mia figlia lo è stata, per un periodo».
E nella sua camera ha appeso il poster di Totoro, l’amico magico del film di Miyazaki.
«Era suo nume protettore, come per me Cenerentola, come spero lo siano Anna ed Elsa per i ragazzini».
Anche nella sua vita le protagoniste sono state donne.
«Sono cresciuta con mia madre, mio padre lo vedevo solo nei fine settimana. Il legame più forte era quello con mia sorella, maggiore di tre anni. È stata una fonte di ispirazione, si è presa cura di me. È responsabile, calma, protettiva. C’è molto di lei in Elsa, guardo a lei come Anna guarda Elsa. Da ragazzine ero quella selvaggia, lei badava che non mi ficcassi nei guai. Ora ha i suoi bambini e io mia figlia, la famiglia si è allargata».
Difficile fare il capo creativo della Disney e la mamma?
«La lotta è bilanciare lavoro e mestiere di genitore. Cerco di portarla nei miei viaggi, separandoci il meno possibile, non escludendola mai. Voglio esserle di esempio ma soprattutto voglio essere la sua mamma».
Anna e Elsa sperimentano la perdita. È successo anche a lei.
«I dolori più grandi sono stati la morte di due amici. Uno aveva undici anni, l’altro ventuno, era il mio compagno, brillante, speciale. È morto in un incidente in canoa.
Aveva tutta la vita davanti. Anche questo mi ha spinto a rifugiarmi in un mondo immaginario».
All’animazione come professione è arrivata tardi.
«Ero uno di quei giovani disegnatori con le idee confuse. A un certo punto illustravo le copertine degli audiolibri. Poi ho capito che il cinema mi avrebbe permesso di esprimere il mio mondo interiore. Ho fatto un corso, un mio amico mi ha aperto le porte della Disney: mi è sembrato di ritrovare le radici. Di essere finalmente nel luogo a cui avevo sognato di appartenere».
La Disney è una fucina creativa, ma anche una multinazionale potente.
«La priorità sono i creativi. Siamo protetti, abbiamo la libertà di spingerci avanti nel racconto delle storie. Guardiamo al mondo e cerchiamo di restituirlo nel modo migliore. Senza fare prediche. La Disney ha sempre cercato la speranza nelle situazioni più difficili e il pubblico ha sempre risposto. Tentiamo storie nuove e diverse, ma la chiave resta sempre la stessa: infondere la speranza nelle nuove generazioni».