Le prime pagine del racconto virano subito in questa direzione. Sulla spiaggia di Santa Severa, località marittima fra Roma e Civitavecchia, si arena, ormai defunta, una gigantesca balena, proveniente non si sa da dove. Giovanni, in mezzo a una folla di ogni condizione e provenienza, porta Plautilla a vederla (sessant’anni più tardi la bambina di quel giorno ricorderà: «Fu la prima — e l’unica — volta che vidi il mare»). Plautilla ne riporta un dente della balena, che resterà sul suo scrittoio tutta la vita. È questo che volevamo dire: tutto ciò che si sperimenta lascia una traccia indelebile.
Intorno — come già accennavamo — c’è il mondo. Straordinaria è, da parte di Mazzucco, la ricostruzione di questo ambiente vivo e debordante, sollecitante e corrotto, sensuale e bacchettone, ilare e triste da morire, che è la Roma del pieno Seicento: la Roma, per intenderci, di papi come Urbano VIII Barberini e Alessandro VII Chigi, tiranni e mecenati, dispensatori di ricchezze e insieme ai loro famigliari più stretti, prelati e cardinali anche loro, lucratori in maniera impensabile di benefici senza fine. Questo è, indubbiamente, il primo grande pregio di questo racconto: ha precedenti nell’ormai abbondante produzione narrativa di Mazzucco (basti pensare alla Venezia de La lunga attesa dell’angelo , 2008, dedicato a Tintoretto e alla sua famiglia, e seguito dal saggio storico Jacomo Tintoretto e i suoi figli , 2015), ma qui raggiunge una vetta per la ricchezza inesauribile dei particolari e al tempo stesso per la tenuta trascinante dell’insieme.
E la dimensione storica delle descrizioni e del racconto trova un baricentro assolutamente unificante e coagulante nella figura e nella storia di Plautilla. Come abbiamo già ricordato, è figlia di Giovanni, figura singolare di artista, se così si può dire, immerso in una dimensione, tra dilettantesca e professionistica, di disegnatore, narratore, inventore di giochi e di intrattenimenti, e destinato a restare, ahimè, sempre sulla soglia dell’affermazione e del successo, anzi, condannato, a recederne sempre più — com’è ovvio — man mano che crescono gli anni e i malanni.
Plautilla interpreta in un certo senso quel che lui non aveva potuto né sperare né essere: ma con una connotazione così femminile, nella forza come nella debolezza, da costituire un caso storico invidiabile, se fossimo disposti a concederle sul piano della ricostruzione oggettiva degli eventi, il credito che Mazzucco, infallibilmente e senza esitazioni, le attribuisce.
Questo credito è la sostanza del suo sforzo di rappresentazione. In mezzo al groviglio romano, di cui parlavamo sopra, l’elemento che definisce e chiarisce e unifica il processo è la figura oscillante e al tempo stesso ferma e coraggiosa di Plautilla.
Accanto alla vera e propria moltitudine di artisti e architetti, che popolano le pagine storiche di questo libro — Bernini, Pietro da Cortona, Salvator Rosa, Borromini — la ricerca di sé e della propria vocazione da parte di Plautilla è un caso che emerge con forza dall’uniformità dell’insieme.
Naturalmente non ci sfugge che nell’ambiente romano di qualche anno precedente le esperienze di Plautilla sorge e si afferma l’astro di un’altra artista di rilievo come Artemisia Gentileschi, figlia del noto Orazio, oggetto molti anni or sono di un bel libro di Anna Banti, intitolato appunto Artemisia , 1947. A tal punto non sfugge, che ne è consapevole anche Plautilla: «Qui nella capitale del mondo succedono tante cose. Mio padre m’ha raccontato che la figlia di un pittore pisano suo vicino di casa al Babbuino ha fatto molto parlare di sé, e gli dispiace che sia partita da Roma, perché mi sarebbe stata d’esempio... »).
Il climax dell’intera storia è la progettazione e la costruzione da parte di Plautilla, con la collaborazione minoritaria del fratello Basilio, di una villa sulla parte più alta e aggettante del Gianicolo, non uno dei sette colli di Roma, ma nei secoli diventato quasi un luogo di passione e di culto per tutti i romani che si rispettino (non a caso, attualmente è dominato dalla statua di Garibaldi a cavallo, che guarda dall’alto la città); e può farlo, e lo fa, per commissione dell’unico amante della sua vita, l’abate Egidio Benedetti, agente a Roma del potente Cardinale Giulio Mazzarino, insediato autorevolmente alla Corte di Francia.
Così, in un certo senso "l’architettrice" raggiunge, tardi, ma definitivamente, il duplice culmine della sua esistenza, ciò che le consente di dichiarare: «A cinquant’anni, sono diventata qualcuno, se questa espressione ha un senso…». La sua creazione si chiamerà comunemente la Villa del Vascello, per la sua conformità con un agile veliero che solca tranquillamente le acque più tempestose (e anche questo ha un senso nel contesto generale del racconto).
Ma, se la storia di Plautilla finisce qui (anche se le battute che seguono fino alle ultimissime pagine sono interessanti come il resto), la Storia, quella vera,quella a cui nessuno di noi può sfuggire, non ferma il suo passo inesorabile.
Scivoliamo fino all’estate del 1849. Sul Gianicolo, e specificamente dentro e intorno alla Villa del Vascello, si organizza la disperata resistenza dei volontari repubblicani e dei garibaldini, che vorrebbero impedire l’avanzata delle truppe francesi, intervenute a ristabilire il dominio temporale dei papi. La Villa del Vascello ne esce quasi completamente distrutta. E a noi non è dato contemplare e ammirare la grande opera architettonica di Plautilla, che nonostante tutti i suoi sforzi rischia di rimanere cancellata dalla Storia.
Mazzucco dedica a questa vicenda cinque intensi intermezzi di natura più storica e documentaria, ma anche qui non senza approfondimenti estremamente personali e psicologici (basti ricordare la singolare storia di Leone Paladini, uno dei difensori della Repubblica romana, che la Mazzucco segue con appassionata partecipazione, in Italia e fuori d’Italia).
Nel capitolo Persona d’età assai avanzata Plautilla formula il suo congedo dal mondo; così come, nel capitoletto successivo, Mazzucco formula il suo congedo ai lettori. Non desideriamo né riassumere né tentare d’interpretare né l’uno né l’altro. Noi ci fermeremo alle cortesi parole finali di Plautilla: «Non ho nient’altro da lasciare. Le cose mie preziose le ho date a Roma. Il dente della balena a te, che mi leggerai, chiunque tu sia». Noi "il dente della balena" di Plautilla— Mazzucco lo abbiamo gustato; o almeno ci abbiamo provato.