la Repubblica, 25 novembre 2019
Numeri e storia del dissesto idrogeologico
Non abbiamo più tempo: ecco che cosa dice la furia degli elementi che si è abbattuta sull’Italia. E qui è d’obbligo un bel respiro di sollievo. Perché per puro caso il crollo del viadotto sulla Torino-Savona e l’apertura di una voragine sulla Torino-Piacenza non hanno consegnato alla cronaca altre tragedie. Ma tirare in ballo soltanto la vendetta della natura per quei fatti, a cominciare dai trenta metri di autostrada spazzati via come un fuscello, sarebbe ancora una volta da irresponsabili. Come hanno spiegato bene gli esperti, anche l’uomo ci ha messo del suo. Da secoli il fragile territorio della Liguria viene difeso dal rischio di frane con i terrazzamenti, un’opera di minuziosa manutenzione. Ma che una volta interrotta, ha amplificato il rischio in modo tanto più micidiale grazie al contributo dei cambiamenti climatici.
Un assaggio l’avevamo già avuto con l’alluvione alle Cinque Terre, il 25 ottobre del 2011: ben otto anni fa. Quel disastro avrebbe dovuto far accendere quantomeno una spia rossa, ma nessuno ha colto in segnale. Ancora una volta, di fronte alle montagne che franano, ai viadotti che crollano, alle voragini che si aprono, ai fiumi che straripano, si deve constatare che straripano anche le chiacchiere.
Risale al 1992, quattro anni dopo la catastrofe della Valtellina e due anni prima della spaventosa alluvione del 1994 che fece 70 vittime in Piemonte, la prima proposta di legge per arginare il dissesto idrogeologico: finita ovviamente nel nulla. Ma da allora non c’è stato un solo governo che non abbia preso solenni impegni per combatterlo. A parole, dato che quando poi si trattava di mettere a disposizione le risorse necessarie, dalla cassa uscivano soltanto briciole.
Come non c’è stato un ministro dell’Ambiente che si sia astenuto dal promettere un piano organico per arginare una piaga che intanto gli stessi governi di cui facevano parte magari alimentavano con i condoni e le sanatorie edilizie. Mentre chiudevano gli occhi davanti all’offensiva dell’abusivismo amministratori locali compiacenti: salvo poi indignarsi per l’inerzia dello stato dopo ogni disastro.
Sulla scia dei predecessori, anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato che la lotta al dissesto “è una priorità”, avendo annunciato, il primo febbraio di quest’anno, un “Piano nazionale” per la metà di quello stesso mese.
Auguri a tutti noi, aspettandoci di vedere quanto prima anche quel Piano di adattamento ai cambiamenti climatici che l’Unione europea chiede da tempo a tutti i Paesi membri di fare: ma che l’Italia non ha ancora sfornato.
Più concretamente, l’attuale ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha firmato un decreto per distribuire 315 milioni per 263 interventi “immediatamente cantierabili”. Altre briciole, per la situazione di questo Paese: in media, meno di un milione 200 mila euro per ogni intervento.
E intanto l’Ance ricorda che siamo riusciti a far scadere 180 milioni di fondi europei destinati a sistemare il territorio di Sarno funestato vent’anni fa. Con la Corte dei conti, come ha sottolineato sulle pagine di questo giornale Gianluca Di Feo, che ha appena denunciato l’incapacità assoluta dello Stato di spendere le magre risorse destinate a contrastare il dissesto, se è vero che è stato utilizzato appena il 20 per cento dei soldi messi a disposizione negli ultimi due anni. Il tutto in un Paese dove lo stesso Stato ha (ma sarebbe meglio dire: avrebbe) per Costituzione il compito imperativo di tutelare il paesaggio. E ora in Parlamento, infiammati da Greta Thunberg, si sta perfino discutendo come introdurre in quello stesso articolo della Carta anche la tutela dell’Ambiente.
Benissimo. Ma per le chiacchiere non abbiamo più tempo: sarebbe davvero il caso di ricordarlo.