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 2019  novembre 25 Lunedì calendario

Intervista a Gilles Kepel

L’Iran fronteggia la «crisi più seria» dalla rivoluzione islamica del 1979. Per la prima volta è alle prese in contemporanea con una insurrezione interna e rivolte nella sua sfera di influenza, dal Libano all’Iraq. Questo spiega la «ferocia senza precedenti» con cui il regime ha represso le manifestazioni. Il «Crescente sciita» è ancora una volta a un bivio. Le «rivoluzioni non violente» possono cadere negli stessi errori delle primavere arabe ed essere schiacciate. Oppure possono condurre a un Medio Oriente più democratico. Gilles Kepel, direttore della cattedra Moyen-Orient Méditerranée alla Scuola Normale Superiore di Parigi e della piattaforma Medio Oriente Mediterraneo all’Università della Svizzera italiana, è tutto sommato ottimista. Nel suo ultimo saggio Uscire dal caos, tradotto per Raffaello Cortina, ha anticipato la possibilità di una svolta positiva e adesso coglie segnali di speranza.
Dal Libano all’Iran, siamo di fronte a rivolte come non si vedevano dal 2011. Che cosa ci dobbiamo aspettare?
«Partiamo dall’Iran. La Repubblica islamica affronta la crisi più grave dalla sua fondazione nel 1979. Il problema per il regime è che le sanzioni americane hanno raggiunto la "massima efficacia" nel dividere la popolazione dalla dirigenza islamica».
Perché i tradizionali alleati sciiti adesso si ribellano? 
«In Libano l’alleato principale dell’Iran, Hezbollah, è alle prese con una doppia perdita di legittimità. Un primo pilastro era la resistenza a Israele. Hezbollah l’ha ereditata negli anni Ottanta dai palestinesi, l’ha ristrutturata con l’aggiunta dell’aggettivo "islamico". In questo modo ha potuto giustificare la pretesa di conservare le armi mentre le altre milizie venivano disarmate alla fine della guerra civile 1975-1990. Il secondo pilastro era basato sulla protezione dei "diseredati", i moustadafin, cioè gli umili, gli oppressi. La prima legittimità è finita quando Hezbollah, nel 2012, è andato a combattere in Siria a fianco di Bashar al-Assad contro l’insurrezione sunnita. Ora il Partito di Dio è caratterizzato più come un movimento sciita anti-sunnita che come anti-israeliano. Anche il secondo pilastro, la protezione dei deboli, cristiani compresi, non funziona più per la crisi economica catastrofica e la distruzione della classe media istruita. Hezbollah ha fatto un patto con il sistema politico settario libanese. Un patto neofeudale che ha finito col proteggere i milionari invece che i diseredati e soprattutto i giovani diplomati senza prospettive, anche sciiti».
Sono gli stessi giovani che manifestano in Iraq, dove però il bilancio è pesante, oltre 300 morti. Come spiega questa differenza?
«Bisogna allargare lo sguardo. In Algeria, Sudan, notiamo come i manifestanti abbiano imparato la lezione della primavera araba del 2011. Se usi la violenza, il potere, l’esercito, le milizie possono sempre sovrastarti con una violenza molto più grande. Questi movimenti di occupazione pacifica delle piazze sono in qualche mondo "gandhiani", più efficaci. In Libano ha funzionato. Il premier Saad Hariri si è dimesso. Un possibile successore, il miliardario Mohammed Safadi, ha rinunciato a prenderne il posto. In Iraq è diverso. È un Paese strano. È sotto il doppio controllo dell’Iran e dell’America, diciamo un 85% agli iraniani e un 15% agli americani. Ma anche qui il sistema settario non funziona più. La stessa classe sociale, le masse giovani istruite, soffre per il clientelismo, che aiuta soltanto gli amici di Teheran. La stessa popolazione sciita irachena è stanca dell’egemonia iraniana, tanto da arrivare a un gesto inaudito: il saccheggio del consolato dell’Iran a Karbala, la Gerusalemme sciita. Il rischio di contagio verso l’Iran era molto più forte e per questo la repressione è stata terribile».
Il contagio non è però stato fermato e adesso tocca all’Iran. Che cosa possiamo aspettarci?
«In Iran la base sociale della rivolta è più povera, potremmo paragonarla ai gilets jaunes. La scintilla è stata la stessa, l’aumento del prezzo dei carburanti. La fine dei sussidi è un segno del successo della politica americana delle sanzioni. Il regime non ha più i mezzi per sovvenzionare i prezzi dei carburanti. Ha bisogno di far pagare di più la popolazione. Appena la gente si è ribellata abbiamo assistito al compattamento tra ala oltranzista, i Pasdaran, e ala riformista del regime. Lo Stato profondo ha ancora i mezzi per restare al potere, ma in un mondo musulmano che sta cambiando rapidamente».
In che senso?
«Per la prima volta vediamo che le rivoluzioni non sono prese in ostaggio da divisioni settarie. C’è un movimento sociale, culturale, che non risponde alle linee del confessionalismo. In Sudan c’è un rifiuto dei Fratelli musulmani, la base che sosteneva l’ex dittatore Omar al-Bashir. In Algeria c’è il ricordo dei gruppi jihadisti della guerra civile degli anni Novanta, e la piazza rigetta violenza ed estremismo. A quarant’anni dalla rivoluzione islamica in Iran e dalla svolta conservatrice in Arabia Saudita, per la prima volta gli islamisti, sciiti e sunniti, sono in difficoltà. Teheran ha meno mezzi a disposizione, a Riad il principe Mohammed bin Salmam ha prosciugato i canali delle ricche famiglie che alimentavano il salafismo. Cresce l’opportunità di rivoluzione non violenta, non settaria, democratica. I primi segnali si vedono già».