La Stampa, 25 novembre 2019
Un terzo delle case di riposo non supera i controlli
Le immagini della vergogna sono quelle sfocate che filtrano dalle inchieste, riprese da telecamere nascoste. Anziani disabili o non autosufficienti maltrattati e insultati nei casi più gravi, abbandonati a se stessi nelle situazioni "migliori", con le uniche ragioni della crudeltà o dell’indifferenza e con l’obiettivo di un guadagno facile sulla pelle dei fragili. I dati dei carabinieri del Nas, che ogni anno effettuano migliaia di controlli in tutta Italia, documentano una situazione allarmante, con irregolarità riscontrate nel 30 per cento dei casi e un ventaglio di situazioni che va da "semplici" mancanze amministrative, come la presenza di un numero di anziani superiore rispetto al limite autorizzato o spazi insufficienti per accogliere dignitosamente gli ospiti, fino alla somministrazione di cibo e farmaci scaduti e all’esercizio abusivo delle professioni sanitarie (rilevato nel 15% dei casi) e a reati gravi come la mancata assistenza e gli abusi fisici e psicologici, mentre nell’ombra fioriscono case di riposo abusive.
Negli ultimi tre anni, dal gennaio 2017 all’ottobre 2019 i militari guidati dal generale Adelmo Lusi hanno segnalato all’autorità giudiziaria 1119 persone e 20 di queste, principalmente gestori di comunità alloggio o strutture assistenziali, sono state sottoposte a misure cautelari per reati che vanno dal maltrattamento, all’abbandono di incapaci fino alle lesioni e all’omicidio colposo. In un Paese che invecchia è anche questo il frutto avvelenato di una strutturale carenza di servizi, in particolare di assistenza domiciliare, che spinge le famiglie a scegliere soluzioni a volte approssimative, altre volte rischiose.
Nei primi dieci mesi di quest’anno, su 2195 verifiche effettuate in residenze sanitarie assistite (Rsa, con forte impronta sanitaria) e in strutture socio-assistenziali (case di riposo, comunità alloggio, case famiglia) 615 sono risultate «non conformi», il 28%, con 337 persone segnalate all’autorità giudiziaria e un arresto, e 85 attività chiuse o sequestrate. Una ogni tre giorni e mezzo. Erano state 39 nel 2017, per balzare a 95 nel 2018, anni in cui la percentuale di «non conformità» riscontrata dagli investigatori era stata analoga a quella attuale: il 30,8% nel 2017, il 27,2% l’anno seguente. In quasi tre anni, 219.
Le case dell’orrore
È nel 2018 che si tocca il record di arresti, quando 17 persone finiscono in manette e i carabinieri alzano il velo su strutture dove avvengono abusi sistematici. A Latina, nell’ambito dell’Operazione "Gabbia" vengono arrestati il responsabile di una comunità alloggio e sei operatori ritenuti responsabili di maltrattamento e sequestro di persona: una anziana viene filmata mentre cerca disperatamente di uscire da una recinzione metallica che ha trasformato il suo letto in una prigione. Le indagini documentano che in altri casi è stata rinchiusa nella sua stanza. Schiaffeggiata, ingiuriata. A dicembre, a Rimini, è la volta dell’operazione "Collina degli orrori", un nome che descrive la condizione in cui si trovano gli ospiti della casa di riposo. Vengono arrestati la titolare e un infermiere, altri quattro operatori sanitari finiscono nei guai. L’accusa: aver sottoposto gli anziani «a continue vessazioni fisiche e morali, con minacce e percosse, in una struttura priva di requisiti minimi assistenziali e organizzativi, tali da lasciare gli ospiti in un costante stato di abbandono». Un filo rosso di abusi che arriva fino a Cremona dove, nel febbraio di quest’anno, l’educatrice di una Rsa viene arrestata con l’accusa di avere avuto nei confronti dei degenti «comportamenti vessatori e provocatori tali da indurli in persistenti stati di agitazione, arbitrariamente trattati con la somministrazione di massicce dosi di farmaci e tranquillanti». E se accanto a situazioni di illegalità esistono strutture a norma e, in alcuni casi, anche modelli di eccellenza, la guardia deve restare alta. Se si considera che il costo dell’assistenza agli anziani collocati nelle strutture è stimato in poco più di 9 miliardi all’anno, di cui il 50% è a carico della sanità pubblica, mentre il restante 50% è in gran parte a carico delle famiglie, è evidente che l’assistenza è un affare che fa gola a molti.
L’allarme dell’Auser
«Quello degli abusi è un fenomeno allarmante perché riguarda persone che non sono spesso in grado di riconoscere e denunciare le violenze – dice Enzo Costa, presidente dell’Auser – Noi abbiamo più volte sollecitato l’installazione di telecamere, specialmente nelle strutture in cui si trovano persone non autosufficienti e abbiamo chiesto che le Rsa abbiamo una targhetta che identifichi quelle accreditate. Perché se dobbiamo scegliere un albergo abbiamo a disposizione recensioni, rating, stelle, mentre in questo caso non abbiamo nessun tipo di informazione e moltissime persone si rivolgono a noi per avere indicazioni. La verità – sottolinea – è che in questo Paese, il secondo più vecchio del mondo, gli anziani sono un problema o un business, e che abbiamo tre milioni di non autosufficienti e meno di 300 mila posti letto. E poiché le richieste sono notevolmente superiori all’offerta, e visto che solo il 41% dei Comuni riesce a dare qualche forma di assistenza, ecco che nascono le strutture abusive».
Nel 2015 l’Istat ha censito in Italia 12.828 presidi residenziali socio-assistenziali e socio sanitari: delle oltre 382 mila persone assistite, 288 mila sono anziani, 218 mila dei quali non più autosufficienti. La forbice tra necessità e servizi è sotto gli occhi di tutti, e si divaricherà sempre di più: secondo le stime dell’Osservatorio nazionale sulla salute, nel 2028 in Italia gli anziani non autosufficienti saranno 6,3 milioni, un numero che rischia di mettere in crisi l’intero sistema socio-sanitario, mentre le famiglie, ammesso che possano permetterselo, si affidano a badanti. «E anche qui si naviga nel nero – aggiunge Costa – perché quelle contrattualizzate non arrivano a 700 mila, mentre il Censis dice che sono 1, 6 milioni».
I familiari non ce la fanno
Spiega Sergio Pasquinelli, sociologo e direttore di ricerca presso l’Istituto per la Ricerca Sociale (Irs) di Milano: «Sta aumentando la quota di anziani soli e si sta indebolendo la rete tradizionale dell’aiuto familiare sia per la riduzione della natalità che per l’aumento delle separazioni. In questa situazione diventa a volte inevitabile il ricorso alle casi di riposo. E c’è un fenomeno parallelo: per le badanti, rispetto a 15 anni fa, si è ridotta la disponibilità alla convivenza e questo lascia scoperta la domanda di assistenza sulle 24 ore. Se le famiglie non ce la fanno, si rivolgono alle strutture residenziali, un settore dove però l’offerta non cresce di pari passo con l’aumentare degli anziani. Alla fine collochi l’anziano là dove puoi, magari in una struttura non tanto qualificata, ed è lì che può nascere il problema». Il fenomeno crescente delle demenze complica il quadro, «perché non si è ancora sviluppata l’attenzione a formare addetti che abbiano le necessarie competenze».
È in questo pozzo senza fondo di bisogni – tra badanti e strutture residenziali e case di riposo, dove una retta oscilla tra 1500 e 3000 euro (metà dei quali a carico del pubblico) – che finiscono le risorse che lo Stato mette a disposizione, concentrate ancora soprattutto nell’indennità di accompagnamento: «Una misura nata 40 anni fa e mai adeguata che costa 13,5 miliardi l’anno – ricorda Pasquinelli – 520 euro mensili dati a tutti i non autosufficienti anche se hanno livelli di non autosufficienza e condizioni economiche diversi, non tracciata e data sia a chi ha la pensione sociale e a chi ha redditi da Paperone. Invece bisognerebbe riconfigurarla in modo più efficace». Se dunque in molti casi il ricorso alla cosiddetta "istituzionalizzazione" è inevitabile, o viene ritenuto tale, resta il problema di come garantire la sicurezza di chi viene affidato a mani estranee, mentre la proposta di legge che prevede la possibilità di installare telecamere in asili nido, materne e strutture per anziani e disabili, dopo essere stata approvata nell’ottobre di un anno fa alla Camera, è ora in stallo in commissione Affari costituzionali al Senato.
«Servono più controlli»
«Ogni Regione ha le sue regole, ma il sistema di autorizzazione è abbastanza garantista all’atto dell’apertura, quando c’è una procedura che prevede la verifica dei requisiti della struttura e del personale. Poi però mancano verifiche periodiche, perché non c’è una norma che lo preveda, e i controlli che dovrebbero fare Comuni e Regioni, alla fine li fanno soprattutto i Nas – chiarisce Franco Pesaresi, direttore dell’Azienda servizio alla Persona di Jesi e membro del centro di ricerca Network Non Autosufficienza – Ma io credo che un altro tipo di controllo spetti alle famiglie: tutte le strutture che limitano l’accesso ai parenti per esempio andrebbero immediatamente segnalate, anche se gli indizi sono modesti».
I sintomi, dice Pesaresi, sono a volte i più intuitivi. Regola numero uno: il rispetto dei ritmi di vita quotidiani. «Se si pranza alle 11 qualcosa non va, se si cena alle 18 idem. E poi bisogna capire quante volte c’è l’alzata dal letto, quante volte gli incontinenti vengono cambiati, quante volte viene fatto il bagno». I giochi ruotano attorno al costo delle rette: «Quando devi pagare una retta di 1200-1500 euro al mese, e il 70% delle pensioni in Italia sono sotto i mille euro, è chiaro che l’anziano spende tutto e la famiglia deve contribuire. Ma le Regioni offrono contributi bassi e siccome la redditività di questo settore è limitata, ecco perché certe strutture cercano artifici per spendere meno e guadagnare in modo irregolare». A farne le spese sono i nostri vecchi. I genitori. I nonni. «È un tipo di reato che spesso resta impunito – rivela Barbara Pezzilli, avvocato, che ha lavorato a lungo per l’Osservatorio per le vittime di reato di Roma – sia perché le strutture sono legate a prestanome e le indagini magari non portano a nulla, sia perché, così come per la truffa o la violenza intradomestica, esiste ancora la vergogna a denunciare. Bisogna lavorare sulla condivisione e su programmi che facilitino l’emersione del reato».