il Giornale, 24 novembre 2019
Storia dei cocktail
La storia è un bar affollato, tenete sempre gli occhi sul barista. Soprattutto se oltre ad essere uno dei più influenti bartender del mondo, «padre» del Cocktail Renaissance dei primi Duemila, il barista in questione è anche un bibliofilo accanito, un maniaco della ricerca filologica e un folle in grado di snocciolarvi l’etimologia araba della parola alcol (da «colorare», dato che indicava un cosmetico tipo ombretto) o di citare Mies Van der Rohe parlando di quel moderno altare che è il bancone.
Su quell’altare Jim Meehan, fondatore del locale mito newyorchese PDT, è sommo sacerdote e scriba. E in tale veste, dopo diversi libri di ricette di drink, ha deciso di stendere un suo vangelo, Il manuale di Jim Meehan (Readrink, pagg. 471, eruo 37).
Ora, se Hemingway aveva ragione e c’è più filosofia in una bottiglia di vino che in tutti i libri del mondo, probabilmente in queste pagine si trovano distillate tutte le altre materie scolastiche. Perché al netto del titolo poco accattivante e del generale snobismo con cui ci si avvicina di solito ai baristi con aspirazioni letterarie, questo libro è come la drink list di un grande locale: ciascuno ci trova la chicca che cerca. La storia della miscelazione, la tecnica e la geografia che hanno influenzato l’evoluzione delle ricette, la logica cartesiana che sta dietro ai singoli cocktail. Dove «come nel jazz, tutto è sincretismo e improvvisazione», ma mai a casaccio.
È questa erudizione la parte più rivoluzionaria e affascinante del libro. Chi lavora nel settore manderà a memoria i capitoli (iper-tecnici) sull’organizzazione della bottigliera, il design delle sale o la formazione del personale. Tutti gli altri naufragheranno dolcemente in una miriade di curiosità e osservazioni, frutto di una cultura mostruosa formatasi sui «classici» della storia della mixology, che Meehan comprava da giovane spendendo ogni dollaro di paga: dal The Bar-tenders guide di Jerry Thomas del 1862 al Savoy cocktail book di Harry Craddock (1930), fino a The fine art of mixing drink di David Embury.
Rapito dal fluire del tempo, che gocciola inesorabile come birra da una spina guasta, Meehan riflette su quanto lo Zeitgeist sia ingrediente base di ogni drink. Su come «il terroir culturale conti più di quello geografico»: la rilassatezza caraibica più della frutta crea la miscelazione tiki, mentre – come ben sintetizza nell’introduzione Alex Frezza – «a noi europei ci ha sempre fottuto il romanticismo, al bar».
Partendo da qui, e conscio del fatto che «collezionare ricette è come far salire gli animali sull’Arca», Meehan compila un compendio enciclopedico in piccoli sorsi, con un solo obiettivo: passare la torcia di mixologist illuminato alla generazione successiva, perché «la storia dei bar è basata sulla tradizione orale, diffusa nella nebbia di una notte passata a bere. E leggere libri antichi mi ha spinto a capire che il valore del nostro lavoro potrebbe perdersi se non lo conserviamo».
D’altronde «miscelare è raccontare una storia», dunque perché non accoccolarsi ad ascoltarla, tramandandola? Storie minuscole, come quella del Moscow Mule, il drink a base di vodka, ginger beer e lime servito in tazze di rame: inventato nel ’46 agli albori della Guerra Fredda per smaltire vodka che nessuno voleva e sfruttando l’eredità ricevuta da una manifattura di rame. O come quella del Vesper di James Bond, l’immortale variante del Martini descritto da Ian Fleming in Casino Royale. Ma anche Storia maiuscola, la grande mano che shakera esperienze e suggestioni.
Dei vini aromatizzati di greci e romani, dei monaci italiani e francesi che distillavano erbe medicamentose e degli olandesi che crearono il gin non per diletto ma per spirito mercantile, ormai si sa. Ma ogni tendenza, ogni scelta di liquore contiene un mondo.
Il primo cocktail (a proposito, la parola compare sulla stampa inglese nel 1806 ma dalla coda di gallo all’aqua decocta latina, l’etimologia è incerta) fu il punch, introdotto nel XVII secolo dall’India, dove un’acquavite di palma era mescolata ad agrumi, zucchero e spezie. Patriottico e imperiale perché ogni ingrediente proveniva dalle colonie, salubre perché si conservava più di birra e vino, collettivo perché servito da bowl con un mestolo. Almeno fino a quando James Ashley cominciò a offrirlo in porzioni singole: a ognuno il suo. Era nato il drink moderno. L’idea del bere era stata rivoluzionata. Esattamente come accadde poi con Frederic Tudor, che brevettando una macchina per trasportare il ghiaccio diede il via negli Usa ai julep. E a tutto il resto.
Pian piano in filigrana compare il disegno di Meehan. Ricopiare pedissequamente le ricette per quanto originali e accurate -, come i bartender in pensione che se le rivendevano, non basta. Cosa significa la misura «un bicchiere di vino»? Di cosa sapeva lo champagne a San Francisco nel 1930, com’era stato conservato? Nell’epoca superficiale di Google, la conoscenza fa la differenza. Anche al bar. Ci sono dinamiche da comprendere e miti da abbattere. Per esempio l’esausto cliché degli speakeasy, i bar clandestini durante il Proibizionismo. Oggi sono di moda, ma ai tempi servivano schifezze letali e fecero fuggire in Europa i bartender, stanchi di cocktail «svuota-dispensa» come il Corn Popper, in cui sciroppi, panna, soda, latte e qualsiasi altra cosa venivano usati per coprire il sapore di distillati tremendi, che spesso rendevano ciechi.
Perché l’approvvigionamento degli ingredienti e le contingenze hanno sempre plasmato il gusto più delle mode. La miscelazione esplose nel XIX secolo negli Usa per diversi fattori: gli immigrati europei che portavano i loro prodotti, 40 anni di esenzione fiscale sugli alcolici e la legge che dava licenza di somministrazione anche senza affittare camere a ristoranti e taverne, sostenuti da partiti che offrivano drink in cambio di voti. Allo stesso modo, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il blocco dell’importazione di Scotch, gli States furono invasi dal rum (il Cuba Libre comparve per la prima volta nel 1946).
I cocktail sono creature sensibili, «percepiscono» il clima. Non è un caso se durante la guerra del Vietnam la scena andò degenerando, con i drink sostituiti dalle droghe. Non è un caso se a fine Settanta la Discomusic portò con sé gli shot bevuti d’un fiato, se l’edonismo degli Ottanta partorì i cigar bar, la riscoperta dei cocktail classici e dei distillati invecchiati e il Cosmopolitan di Toby Cecchini, se dopo l’11 Settembre la lezione di Sacha Petraske l’uomo considerato inventore della moderna cultura del cocktail di qualità prese piede.
E così, immaginando un fresco Pimm’s Cup bevuto sugli spalti di Wimbledon e studiando la chimica guardando l’acqua che precipita gli oli essenziali nel bicchiere, ci si perde fra le pagine fra racconti di spezie e soldati salvati dalla china antimalarica, fra il sindaco di Digione che offriva il Kir ai suoi ospiti e il Bloody Mary figlio del progresso e dei succhi di pomodoro industriali. E si capisce che «la storia è un archivio, non una messinscena da riesumare come i baffi a manubrio di certi bartender vestiti come in Boardwalk Empire».
Siamo quello che beviamo, beviamo quello che siamo stati.