il Giornale, 24 novembre 2019
Le contraddizioni dell’India
«Ecco la nuova India», dice con orgoglio Parthi abbracciando con un largo gesto lo scintillante Mall di Gurgaon. Piani e piani di negozi con le migliori griffe indiane, europee, americane accolgono una folla di persone ben vestite, con sari tradizionali o jeans occidentali. Nella città satellite della capitale New Delhi scopri quello che non ti aspettavi, dopo aver visto intorno tanta miseria. Le grandi compagnie internazionali hanno i loro uffici e hotel in modernissimo grattacieli, comprensori lussuosi e sorvegliati da agenti privati ospitano famiglie agiate, ci sono campi da cricket e golf e anche metro volanti.
Vive qui Ranganathan Parthiban, uno dei primi negli anni Ottanta ad aprire le porte dell’India ai viaggiatori italiani, specializzandosi in tour personalizzati e all’insegna del massimo comfort. La sua sembra la famiglia-tipo della «nuova India» che avanza: la moglie Devika ha insegnato a lungo matematica e fisica a scuola e ora lo fa privatamente a casa, il figlio ventiseienne Ganesh si è laureato in Economia Aziendale a Londra e ora lavora a Delhi per l’Influencer Marketing Company. Accanto al nome del dio induista dal volto di elefante ha quello italiano, Marco, di un fraterno amico torinese del padre.
«Nel 1983 – racconta Parthi- ho accompagnato degli italiani in tour in India ed è nata la curiosità per il Paese, il suo stile di vita, la sua cultura. Quando ho visto l’Italia è stato amore a prima vista e ci sono tornato 74 volte, imparando la lingua. Ho lavorato con Stati Uniti e Nord Europa, ma negli ultimi 35 anni con la mia società Swagatan ho voluto concentrarmi esclusivamente sull’Italia. Noi crediamo nel Karma e nella Reincarnazione: certo ero italiano nella mia ultima vita o lo sarò nella prossima!». Parthi ha promosso l’India presso i nostri tour operator, ai quali all’inizio era assolutamente sconosciuta e, al tempo stesso, è diventato ambasciatore in patria di vini e cibo italiani. Ha creato 18 anni fa il Delhi Wine Club dove fa assaggiare Chianti e Brunello, organizza degustazioni di parmigiano, grana, prosciutti e Roadshow per prodotti enogastronomici con importatori, catene di ristoranti, hotel, supermercati e media.
Fuori dai recinti dorati di Gurgaeon come di tante altre città prevale, però, la «vecchia India», ben lontana dal progresso e dalla sconfitta della povertà, pur essendo tra le più grandi potenze mondiali. Ed esplodono le contraddizioni. Nella Delhi soffocata dall’aria tossica, si mettono al bando i fumatori e ai turisti si impone di scendere dai bus per arrivare in macchine elettriche ai monumenti. Ci sono le fogne a cielo aperto ma nei bar lo speziatissimo Masala tea si beve in ciotole di terracotta con cucchiaini di legno, in omaggio alla lotta green alla plastica del premier Narendra Modi. Si costruiscono autostrade a otto corsie, al posto delle vie che fanno rimpiangere le buche di Roma, ma guidando a sinistra all’inglese devi schivare branchi di vacche sacre o tuc tuc allegramente contromano.
Nel Rajasthan sono diventati hotel da favola o musei i palazzi dei maraja, costretti a pagare le tasse dall’ex premier Indira Gandhi, mentre le donne in sari coloratissimi si spaccano la schiena accovacciate nei campi e i loro uomini faticano nelle fabbriche con i pannelli solari sul tetto. Nelle campagne, dove svettano fornaci coniche per i mattoni rossi, si traccia il solco con antichi aratri e nelle case si tessono al telaio stoffe e tappeti per le cooperative, ma in città auto all’ultima moda fendono il mare di moto e scooter con 3-4 passeggeri e, raramente, un casco per il guidatore. Le scimmie saltano indisturbate sui balconi delle case di Agra, ma magnifici monumenti come il Taj Mahal sono così affollati di scolaresche in divisa da far ben sperare nel piano d’istruzione del Paese.
Forse è anche questo caos variopinto e stupefacente che fa innamorare dell’India, di un amore che impone di tornare. Ma qui per chi non nasce nella casta giusta sono dolori. Rupesh (o Vikram Prakash) ha la fortuna di venire da quella dei commercianti, che segue bramini e guerrieri e a Jaipur fa il gioielliere. Dalla «città rosa» capitale del Rajasthan anche lui tempo fa è partito alla scoperta dell’Italia e non l’ha più abbandonata. «Un amico indiano – racconta – mi portò alla fiera dell’oro a Vicenza e lì ho imparato molto, comparando il nostro artigianato a quello italiano. Da noi c’è molta ammirazione per il lifestyle, la moda, il mondo del lusso italiani e ho scoperto che tante nostre creazioni, con pietre preziose e semi preziose, incontrano il vostro gusto. Oggi ho una casa a Milano e lavoro con molti colleghi in Italia, oltre che negli Usa e a Dubai...». Alla vigilia del Diwali, la Festa delle Luci simile al nostro Natale, Rupesh fa buoni affari grazie alla dea della ricchezza Laxshmi, che prescrive doni di metallo, così i poveri affollano negozi di pentole e i ricchi scelgono collane, anelli e bracciali.
Il suono di cornamuse, retaggio della dominazione britannica, accoglie i visitatori nell’hotel di Udaipur, romantica città sui laghi. Di rigore il passaggio al metal detector perché le tensioni tra induisti e musulmani rischiano sempre di sfociare in terrorismo. «Ma dall’attentato a Mumbai del 2008, non è più successo nulla di grave e la situazione oggi è sicura», garantisce Sanjay Agraval. Ha studiato a Perugia e in patria fa da guida anche a personaggi famosi come Luciano Benetton. «La vicenda dei Marò ha quasi bloccato i turisti, però da due anni tutto è tornato alla normalità. C’è qualcosa di speciale che lega i nostri Paesi».