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 2019  novembre 24 Domenica calendario

Biografia di Arrigo Sacchi raccontata da lui stesso


Ha una voce che taglia l’aria. Di chi è abituato a far giungere il messaggio senza incertezze. Se ha dei dubbi se li tiene per sé. Sarebbe ancora Arrigo Sacchi, l’uomo che ha rivoluzionato il calcio, se non avesse una fede incrollabile in ciò che pensa e crede? Lo incontro in un albergo di Cologno Monzese, una costruzione comoda e anonima, funzionale per chi ha impegni in zona. Sacchi è atteso a una trasmissione televisiva. L’ho visto alcune volte sullo schermo tv discutere molto di calcio e poco di vita. Ma in fondo – come direbbe Soriano – il calcio è la vita vista dal paradiso (o dall’inferno). Non ne capisco molto di calcio. E ogni volta che sento gli esperti parlare mi sembrano tanti piccoli strateghi che rendono un gioco semplice una cosa complicata. Sacchi no. Sacchi ha la passione di argomentare con le geometrie della mente. Tra Pascal e Cartesio starebbe dalla parte di quest’ultimo. Al cuore preferisce la ragione. Dunque, eccoci uno di fronte all’altro. È subito colloquiale e immediato. Mi dice che Pep Guardiola gli ha inviato per smartphone la scena di una semifinale della Coppa Campioni: Real Madrid-Milan 1989. Me la fa vedere. Una folata di vento. Movimenti sincronizzati.
Terzini che si sostituiscono agli attaccanti. Tutti avanzano con aggressiva armonia, «peccato che il gol di Gullit fu annullato, alla fine pareggiammo uno a uno». Sacchi ha da poco pubblicato La Coppa degli immortali (scritto con la collaborazione di Luigi Garlando, edito da Baldini+Castoldi). È un grande e personalissimo affresco del Milan di quell’anno indimenticabile.
Prima del calcio chi è stato Arrigo Sacchi?
«Uno che ha vissuto a lungo in una provincia laboriosa dove c’erano 60 calzaturifici. Mio padre ne gestiva un paio. Vi ho lavorato per 13 anni. Quando si ammalò, senza sapere nulla di scarpe, lo sostituii. Avevo 19 anni. Da bambino mi portò con sé in Germania. Mi accorsi che i lavori più umili ricadevano sugli italiani. E mi venne spontaneo dire: ma papà, non eravamo noi i furbi e loro i crucchi? In quel momento compresi che la furbizia non paga».
Perché c’è sempre qualcuno più furbo?
«Non in quel senso. Sono convinto che solo il lavoro ben fatto può dare risultati durevoli. Il resto sono chiacchiere e sotterfugi».
Vale anche per il calcio?
«Certo, e l’ho dimostrato».
Come nasce questa sua passione?
«Da principio giocando, ma senza risultati incoraggianti. Meglio mio padre che fu anche giocatore della Spal. Più che la voluttà del gioco, da lui ho appreso il senso del dovere e l’intransigenza».
Da sua madre cosa ha preso?
«Un pizzico di follia, tipico dei romagnoli».
Intransigenza e follia vanno d’accordo?
«In me la miscela ha funzionato, aprendo un varco verso la visionarietà».
Sacchi un visionario?
«Così una volta mi definì Paolo Maldini».
Chi è un visionario?
«Chi sa leggere nel futuro ciò che gli altri non riescono neppure a vedere».
Fallisce come calciatore e che fa?
«Cominciai ad interessarmi della squadra locale: il
Fusignano».
Aveva già un’idea di gioco?
«Pensavo che una squadra dovesse creare bellezza e determinazione. Da giovane avevo visto giocare la grande Ungheria. In casa non avevamo la televisione. Seguii l’Ungheria di Puskas e il superbo Real Madrid in casa di un amico. Uno spettacolo vedere come certe squadre producevano bellezza e risultati».
Lei per chi tifava?
«Per l’Inter. Ero felice del suo periodo d’oro. Per i risultati conseguiti da Herrera. Ma la squadra non mi dava la stessa emozione del Real Madrid. O del Brasile. O dell’Ajax di qualche anno dopo».
Cosa avevano in comune?
«Velocità, intelligenza e armonia le rendevano padrone del campo e del pallone».
Quando diventa allenatore?
«Nel 1973. Presi il patentino a 27 anni con Silvio Piola. Negli occhi avevo il gioco abbagliante dell’Olanda. Iniziai ad allenare il Fusignano, l’Alfonsine, il Bellaria. Scoprii che mi piaceva. Mi ero sposato l’anno prima e c’era anche l’azienda da condurre. Non ero certo che il calcio sarebbe stato tutta la mia vita. Ma lo divenne quando presi il Rimini, il Cesena e poi il Parma. Fu una crescita costante».
Con squadre che si dovevano salvare.
«Non ho mai pensato alla retrocessione. Ai miei giocatori chiedevo impegno e affidabilità. La persona per me è sempre venuta prima del gioco. Molti miei risultati sono dipesi da questa filosofia».
Dal Parma passa al Milan, un salto notevole.
«Stavo per andare alla Fiorentina. Anzi, c’erano tutti i presupposti per l’accordo».
Perché saltò?
«Berlusconi sapeva essere molto seduttivo e simpatico. Mi invitò ad Arcore e per tutta la cena fino a notte inoltrata parlammo di calcio. Percepii immediatamente l’entusiasmo ed ebbi la certezza che da Presidente volesse fare grande il Milan. Il giorno dopo telefonai a Ranieri Pontello, il patron della Fiorentina, per dirgli che avevo firmato con un’altra squadra».
Non si sentì a disagio?
«Forse un po’ all’inizio. Ma poi superammo l’imbarazzo. Mi disse: “spero solo che sia una squadra più forte della Fiorentina. In questo caso non avrei rimpianti”. “Si fidi, è più forte” replicai».
Come l’accolsero i giocatori?
«Venni soprannominato “il signor nessuno”. In fondo lo ero: venivo da una lunga gavetta in serie minori e dall’aver allenato squadre che portai in B. In pratica vollero farmi sapere: primo chi è questo, secondo cosa pensa di fare, terzo lo sa chi siamo noi? Uno dei più scettici nei miei riguardi fu Franco Baresi. All’inizio dunque non fu per niente facile».
Che idea di calcio voleva trasmettere?
«Cercavo di contrastare l’idea che all’estero avevano di noi: paese di pizza, mafia e catenaccio. Almeno il catenaccio volevo provare a smentirlo».
Fu una delle sante verità proclamate e difese da Gianni Brera.
«Grandissimo giornalista, con una prosa che ammaliava. Ma le nostre visioni erano opposte. Prima della semifinale di ritorno con il Real scrisse che avremmo giocato contro i maestri del calcio, perciò bisognava attenderli e uccellarli. Non li attendemmo e vincemmo cinque a zero».
Puntando sulla difesa a oltranza avevamo vinto parecchio e in fondo le squadre avversarie ci temevano.
«Ci temevano e ci disprezzavano. Il nostro era un calcio prudente, difensivo e molto tattico. Cercavamo di sopravvivere. Di dimostrarci più furbi degli avversari. Quando si punta tutto sul tatticismo e sulla qualità dei singoli si perde di vista la bellezza del gioco».
Il tatticismo ci ha permesso di vincere qualche mondiale.
«Certo, è un fatto. Ma a che prezzo e con quale considerazione venivano accolte le nostre vittorie? Non riesco a pensare il calcio come un evento mediocre. Anch’io, è ovvio, desidero vincere, ma trovo che farlo anche con la bellezza rende una vittoria degna di essere vissuta e celebrata. Perché ancora tutti ricordano l’Ajax degli anni settanta, il Barcellona degli anni più recenti? E ci sarà una ragione perché quel Milan di trent’anni fa è stata considerata la squadra più bella e equilibrata di tutti i tempi».
In che relazione metterebbe il suo Milan con le due altre squadre che ha citato?
«C’è una continuità e un’evoluzione. L’Ajax, vent’anni dopo arriviamo noi, altri vent’anni e arriva il Barcellona. Winston Churchill sosteneva che cambiare non equivale a migliorare; ma per migliorare occorre cambiare».
All’inizio però i suoi giocatori non la prendevano sul serio.
«Diciamo che ai loro occhi ero un corpo estraneo. Allora cercai di spiegare che per rendere davvero un uomo libero occorrono tre cose: le idee, la bellezza e il coraggio. E poi aggiunsi che tutto questo sarebbe servito a poco se non fosse stato messo al servizio degli altri, nel nostro caso della squadra. Un gruppo diventa grande e fa cose grandi se c’è una sinergia».
Sinergia è una parola molto aziendale.
«È vero, ma io vengo dal lavoro di azienda. Da mio padre che ha fatto questo nella vita. Ho sempre creduto nell’etica del lavoro. Io conosco la precarietà della vittoria ed è il motivo per cui senza i valori non si va da nessuna parte. Sa perché il Milan è stato grande? Perché aveva imparato ad essere uno splendido collettivo in continua evoluzione dove tutti praticano la fase offensiva e difensiva, collegati da un filo invisibile che è il gioco».
In questa visione che ruolo ha la grande individualità?
«Il genio può risolvere una o più partite, perfino farti vincere un campionato. Ma la sua azione è tanto più esaltante quanto più è integrato in un disegno collettivo».
Non deve essere facile gestirlo.
«Non lo è fino a quando non comprende che la generosità paga molto di più dell’egoismo».
Lei ha avuto dei casi difficili.
«A chi pensa?».
Gullit e Baggio per esempio. O anche ai rapporti a volte complicati con Van Basten.
«Van Basten fu un caso montato dai giornali. Avevamo perso alla seconda giornata con la Fiorentina e i giornali scrissero che Van Basten bocciava il gioco di Sacchi. La partita seguente lo misi in panchina per fargli capire da che parte stava l’autorità. Marco non aveva un carattere forte come Gullit. E la polemica con quest’ultimo nacque solo da un equivoco. E credo fermamente che Ruud sia stata la nostra energia. Quanto a Baggio, che ci segnò un gol spettacolare nella partita che perdemmo con la Fiorentina, pensava che io fossi il suo allenatore privato. Mi diede del matto quando lo cambiai al mondiale contro la Norvegia».
Confermerebbe ancora oggi quella decisione?
«Credo che molti tifosi mi avrebbero linciato. Ma fu una scelta giusta. Eravamo in dieci, dopo l’espulsione del portiere, e lui non aveva più lo smalto per correre».
Quel mondiale del 1994 finì con il Brasile che vinse sull’Italia ai rigori. Si rimprovera qualcosa?
«No, una finale così, in quelle condizioni, si può perdere. Credo che siamo andati ad un passo dal sogno. E altre volte sono andato oltre il sogno. Quando lo dissi ai miei giocatori mi risposero che non erano coscienti di quello che stavano facendo e io dissi loro: se vi può consolare anch’io non lo ero».
Lei ha lasciato il Milan, la Nazionale, poi in Spagna ha fatto il direttore tecnico rinunciando ad allenare il Real Madrid. Cosa l’ha frenata?
«Lo stress, la tensione, l’essere costantemente sul punto di esplodere. Non puoi sempre chiedere l’impossibile al tuo fisico e alla tua mente. Ho dato la vita per il calcio e il calcio mi ha ripagato con grandi emozioni. Non ho nessun rimpianto e considero oggi questo il mio vero successo».
Quando ha sentito che era finita?
«Quando la mia gastrite si stava trasformando in ulcera. Quando non bastavano i tranquillanti per dormire. Quando mi svegliavo con gli incubi. Sono andato da uno psicologo e gli ho detto: la mia vita sta franando. Che devo fare? Sono 27 anni che alleno. Ora mi sento smarrito e anormale. E lui: i 27 anni sono l’anormalità. L’eccezione. È normale che si senta così».
La consola un palmarès come il suo.
«Qualcuno ha detto: se una cosa funziona dopo un po’ correggila. Lo so, è strano. Ma ho sempre pensato che una vittoria senza merito è solo una mezza vittoria. Siamo un popolo strano. Il vecchio Ferrari diceva: siamo brava gente ma non perdoniamo chi vince».
È questo che non le hanno perdonato?
«Non mi sono mai immaginato come una vittima del conformismo. Però è dura in un paese come il nostro andare controcorrente».